Tra gli avvenimenti del 2015, il referendum di domenica 5 luglio sarà una data da non dimenticare per la Grecia. Come ormai anche le pietre sapranno, il popolo ellenico è chiamato a votare per esprime il proprio consenso (o dissenso) riguardo alla proposta della Commissione Europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea per sanare la situazione economica nel Paese e rimediare al debito contratto. Concretamente, la Grecia dovrà dunque scegliere se accettare quella proposta, e quindi riforma fiscale, tagli alle pensioni, tagli alle spese militari, oppure votare NO e rifiutare. Nel momento in cui scriviamo, non sappiamo quali saranno gli esiti della votazione in corso. Sappiamo innanzitutto, però, che questo formalmente non è un referendum sull’uscita della Grecia dall’eurozona e su un probabile ritorno alla dracma, anche se i più pessimisti non possono fare a meno di ipotizzare che l’Unione Europea nei prossimi giorni potrebbe avere un membro in meno.
Quello che è lecito fare, al momento, sono delle previsioni. Dunque, se a vincere dovesse essere il SÌ, il piano di salvataggio di Atene sarà messo in atto dai creditori internazionali con un supporto finanziario che, stando alle stime dell’FMI, dovrebbe ammontare intorno ai 50 miliardi di euro. E fin qui non ci piove. Ma Alexis Tsipras che fine farà? Perché una probabile vittoria per il SÌ (le previsioni danno il popolo greco diviso in due) si tradurrebbe sul piano politico in una sfiducia da parte dei cittadini nei confronti del loro leader. Come dire che sono un po’ stanchi dei suoi tentennamenti e delle sue controproposte, e preferiscono ignorare il suo appello a votare NO e affidarsi piuttosto a un aiuto che venga da fuori. Oppure potrebbe addirittura dimettersi, con o senza la sua volontà; ma in tal caso chi mai prenderà il suo posto? Ci saranno nuove elezioni? O sarà un governo tecnico ad insediarsi in Parlamento?
L’altra eventualità è che a vincere siano i NO, ed è una strada altrettanto incerta, se non ancora più rischiosa. Perché a quel punto, forte della solidarietà ricevuta dalla Grecia, Tsipras potrebbe pensare di avere le carte in regola per dettare le proprie condizioni all’Europa, ma non è detto che l’Europa abbia più voglia di dargli una mano. Anche in questo caso, il governo si avvierebbe verso un fallimento, mentre i creditori internazionali sarebbero loro a dire di no a nuovi finanziamenti.
Qualunque via si apra davanti alla Grecia nell’immediato futuro, Tsipras, Varoufakis e l’intero governo di Syriza finirebbero per inciampare. Il guaio è che, oltre al dramma della Grecia, già insostenibile per i greci stessi, nella caduta rischia di farsi male pure l’Europa. In tempi in cui le spinte scissionistiche e irredentiste aumentano da una parte e dall’altra, in cui la minaccia terroristica si fa sempre più incombente, e il problema immigrazione raggiunge dimensioni esorbitanti, la mancanza di dialogo tra i leader dell’Unione non promette per niente bene. Se anche lo scenario fosse dei più rosei, guardare un Paese vicino che affonda non sarebbe comunque un bello spettacolo. Prima di tutto, potrebbero uscirne rafforzate quelle correnti che un po’ dappertutto, dall’Italia alla Francia alla Gran Bretagna, auspicano un’uscita dall’euro e puntano il dito della crisi contro mamma Europa, con ripercussioni anche negli altri Stati. Ripercussioni non particolarmente preoccupanti: è assai improbabile, al momento, che si realizzi il sogno di Marine Le Pen di mettere la parola fine all’Unione Europea, tanto per fare un esempio; però è pur vero che il rinvigorimento di un contrasto interno, tra i separatisti e gli europeisti, non giova mai alla politica locale. Infine, sarebbe un fallimento per l’Europa intera, per quella idea di Europa che era comunanza di obiettivi, di forze e di risorse, mentre la Grecia va ad alimentare quel magma dell’incertezza economica che è la Penisola Balcanica.