Nel 1992, ad opera di Max Pezzali, nel testo di una canzone di grande successo, veniva ucciso l’Uomo Ragno. Il 2014 potrebbe essere ricordato invece come l’anno in cui morirono le principesse Disney. L’artista che le ha “uccise” e` il fotografo francese Thomas Czarnecki che con le sue opere ha conquistato diverse fotogallery della stampa internazionale, tra cui quella su Repubblica.it
Le foto ritraggono le eroine della Disney in contesti squallidi ed oramai ridotte a corpi senza vita, inermi, che sicuramente attirano l’attenzione di chi, per un motivo o per l’altro, viene a contatto con queste singolari fotografie. Ma è davvero arte o è solo provocazione? Ne parliamo con Rossana Di Poce, cultore di “iconografia del disegno anatomico, e semiologia del corpo” presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli.
«E` la frantumazione del mito della favola che finisce sempre bene, il lieto end, l‘happy che manca. Una operazione visiva non estremamente nuova, ed incentrata comunque sul senso, significato e significante dell’icona: secondo il semiologo e matematico Charles Sanders Peirce (1839-1914), l’icona è uno dei tre tipi principali di segni, distinto da un rapporto di somiglianza attraverso una qualità o una configurazione determinata dell’oggetto significato.»
Una operazione dunque che gioca su una prima codificazione mediante segni conosciuti, che fanno parte del nostro bagaglio culturale, codificazione che si è presto costretti a modificare, guardando meglio le foto.
«In genere lo scatto prevede oltre ad una donna, un inequivocabile segno distintivo: scarpetta/Cenerentola, coniglio/Alice, pinna caudata/Sirenetta, in maniera da eliminare ogni dubbio di riconoscimento del personaggio alla prima visione. Ma, immediatamente, nell’attimo in cui il cervello codifica che il corpo giace spiaggiato, e la coda è tutta legata da una corda, entra in gioco l’antitesi visiva: non è più la Sirenetta, quella Disney tutta perfetta che abbiamo in mente: è una Sirena morta, soffocata. E’ una Sirenetta alternativa. Nel caso di una sconsolatamente seduta a capo chino bambina-ragazza e del bianco coniglio ai suoi piedi: è Alice ma un’Alice che si è perduta in una stanza diruta.»
Il nostro sguardo viene così dirottato dal nostro ricordo a una realtà molto diversa: le principesse non hanno più una vita da favola, anzi non ce l’hanno affatto, le principesse sono morte.
« L’autore dello scatto ci scalza e sorprende, mostrandoci il paradosso di certe situazioni: ci porta verso una antitesi mentale, ovvero un contrasto esplosivo tra il buono che ci aspettiamo e il cattivo che ci viene mostrato. E’ tipico delle immagini usare le figure retoriche: nel narrarci con un solo scatto il potenziale dark-end, il fotografo usa un procedimento di sineddoche: la parte per il tutto, e “provate ad immaginare se” o addirittura ci suggerisce “che davvero è così piuttosto che cosà”. E dunque ci porta per mano visiva a crearci davanti un’idea alternativa delle nostre eroine preferite in situazioni estreme: nel progetto“Brutte, sporche e Principesse” l’analisi dell’uso variegato delle figure retoriche andrebbe estesa scatto per scatto, poiché non in tutti i lavori è usata la stessa figura retorica come alternativa, ma certamente lo è, invece, il processo di interruzione dell’icona come immagine positiva acclarata. In queste crisi visive e di senso di Thomas Czarnecki, vanno letti i nuovi messaggi circa l’uso del corpo delle donne: veicolati appunto, e dunque trasportati verso un altrove di significato. Nell’operazione di far saltare a forza di dinamite-dettaglio i canoni di somiglianza tra la donna mostrata e l’icona mentale, che viene dunque proiettata fuori dal suo Olimpo narrativo dell’happy finale che ci aspettiamo di vedere e che tutti conosciamo, si produce una crisi nello spettatore: la sua immaginazione deve arretrare, riformulare un passo indietro la codificazione e riflettere (“ho visto bene”? dice il nostro cervello) e così ritorna una donna forse normale davanti ai nostri occhi, forse ancora Biancaneve, o forse no: potrebbe o non potrebbe essere lei; “e se invece di così, è andata cosà?” Si chiama ambiguità semantica, la possibilità di più significati: è lì può e deve inserirsi l’arte.»
La provocazione è senza dubbio riuscita, ma a quale costo? Come si esce dall’essere testimoni della distruzione di un mito della nostra infanzia? E come ne esce la figura della donna?
«In quanto al contenuto dissacrante, beh, cosa dire, il tempo è quello giusto, penso, non c’è il pericolo di distruggere immagini sublimi nelle menti di ragazze e ragazzi cresciuti nei miti di quei personaggi, le fate sono scomparse da un po’ ormai, almeno quelle antropomorfiche, e con loro gli gnomi, gli orchi e le streghe» dice il dottor Santo Messina, sociologo e psicoterapeuta siciliano che continua: «Che il popolo e i bambini siano stati sempre affascinati dalle principesse (anche oggi) e che gli piaccia costruirci attorno un alone di fiaba, di intangibile sacralità, è risaputo (ad esempio a nessuno viene in mente di raccontare mentre stanno in bagno, come se non avessero gli stessi bisogni dei comuni mortali…). Ecco, il fotografo si è riproposto di ottenere la sua visibilità attraverso la dissacrazione, disarcionando quei miti da dove erano comodamente assisi. Ma, dicevo, non mi sembra una cosa così rivoluzionaria: molte principesse ci hanno pensato da sè a farsi percepire per quel che in fondo sono: persone normali, donne che, come tutte le donne, amano tradiscono, qualche volta si ubriacano…»
Nessun pericolo dunque di disorientamento davanti a queste immagini. Se lo scopo dell’autore era quello di suscitare attenzione c’è assolutamente riuscito. La curiosità è nata eccome, ma il fotografo è nello stesso tempo riuscito ad evitare lo scandalo: a quanto pare, le foto delle principesse morte, nella nostra epoca, sono solo la cronaca di una morte annunciata.