Officina delle idee

23 Novembre 1980

Quella sera ero al San Carlo ad ascoltare Severinio Gazzelloni, famoso flautista. C’era anche mio figlio Peppe con la sua ragazza ma c’era andato per i fatti suoi. Come saprete, i palchi del San Carlo sono di legno come di legno è la sua struttura profonda. Al momento della scossa perciò vi fu un boato tremendo. Severino smise subito di suonare, si mise il flauto sottobraccio e si avviò con calma verso l’uscita. In sala invece successe l’inferno. La gente, in preda al panico, affollò le uscite intasandole e rendendo difficile il deflusso. Quelli che erano nei palchi sfondarono le porte a calci invece di aprirle precipitandosi per le scale come una mandria di buoi spaventati. Mi resi conto che la situazione era pericolosa e ragionando sul fatto che una struttura di legno è elastica e quindi in grado di ammortizzare le scosse, restai seduto al mio posto in un palco di terza fila. Quando la furia passò uscii ed in tutta calma scesi per le scale ormai deserte. Raccolsi un paio di pellicce che consegnai all’uscita alla polizia accorsa. Qualcuno che era fuori del teatro mi disse: Ma voi eravate ancora dentro? Certo-risposi. non aveva ragione di farmi travolgere da una folla spaventata. e mi avviai verso casa avendo cura di camminare al centro della carreggiata per scansare eventuali cadute di cornicioni. Arrivato a casa trovai famiglie e vicini sotto il portone, spaventati a morte, Dopo un’oretta mio figlio Gianni mi disse: Papà ho fame. .Andiamo su a mangiare qualcosa. Una nostra vicina, terrorizzata interloquì. Come hai fame? Ma l’hai capito o no che c’è stato un terremoto? E Gianni placido: Ma perché quando viene il terremoto non si mangia? Così salimmo e cenammo mentre ancora i lampadari oscillavano e la tavola ci ballava davanti. Prima che spuntasse il giorno andai al sindacato dove trovai già i compagni responsabili. Un rapido giro di telefonate ci fece rendere conto del disastro. Ci attivammo per portare soccorsi ai terremotati. Facemmo un primo carico di coperte, indumenti, acqua minerale e inviammo un primo convoglio fatto di autobus dell’Atan e di camion messi a disposizione dagli spedizionieri. Avviato il convoglio partimmo in macchina io e Carlo Cossu per andare sul luogo. Fu una vera avventura. I cavalcavia in cemento armato non avevano ceduto ma le strade si. Perciò per superare i cavalcavia si doveva creare una rampa improvvisata con pietre e tronchi d’albero. Arrivati in un punto elevato vedemmo una crepa che spaccava la terra per a qualche chilometro. Incontrammo l’ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi completamente sprofondato e arrivammo in paese nel buio totale rotto soltanto dalle fotoelettriche dell’esercito. Il buoi assoluto ed il silenzio erano impressionanti. Ci fermammo spossati e riposammo in macchina. Appena fece giorno percorremmo la linea ferroviaria che traversava il cratere. In tutte le stazioni trovammo i ferrovieri al loro posto di sevizio che non avevano lasciato da ormai due giorni. Notte e giorno senza pause: Messi in sicurezza gli impianti avevano messo a disposizione dei sinistrati i carri e le vetture presenti negli scali. Non si sentivano eroi. Semplicemente lo avevano fatto perché sentivano che quello era il loro dovere. Il sindacato si accollò gran parte della gestione dell’emergenza ed i nostri compagni andarono a gestire centri di assistenza e coordinamento. Vi restarono per qualche mese fino a che la vita non riprese: Eroi sconosciuti e generosi senza la cui opera la vita non sarebbe ripresa. La mia rabbia postuma fu dovuta al fatto che mentre centinaia di nostri volontari affrontavano difficoltà immense senza risparmiarsi c’era chi profittava del fiume di denaro che si riversò sul cratere per speculazioni, ruberie ed affarismo. Perciò di quel dramma tutti ricordano il peggio, l’azione dei cinici speculatori e non la generosa opera dei volontari e l’appassionata osservanza dei loro doveri dei nostri compagni ferrovieri. Vi sembra giusto?

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