La città sconvolta era alla fame, il gas non c’era più, l’acqua mancava, per dissetarsi i cittadini dovevano ricorrere a pozzi sporchi e infetti od arrivare sino alla periferia; sotto le macerie e per le strade giacevano i cadaveri insepolti. Le malattie aumentavano, l’epidemia minacciava.
Una ventina di ricoverati all’ospedale degli Incurabili, in maggioranza ex confinati politici che si trovavano colà per malattia, si riunirono, discussero il da farsi e decisero: “Domani ci armiamo e scendiamo in strada”. In quei giorni erano riusciti a procurarsi ed a nascondere nelle cantine dell’ospedale e nelle casse della sala mortuaria, 3 mitragliatrici, alcune decine di fucili, cassette di proiettili e centinaia di bombe a mano.
Si combatte nella zona Ferrovia-Vasto, a S. Giovanni Carbonara, sulla collina del Vomero, a Stella, a Materdei, al Rettifilo, a Foria, a Monteoliveto. Le sparatorie improvvise che si accendono e si spengono rapidamente testimoniano che si tratta di azioni sporadiche, non inquadrate, di iniziative “spontanee”, ma via via gli scoppi si fanno più frequenti, i colpi si susseguono gli uni agli altri, i parabellum sgranano in continuità.
Giovani, militari e ufficiali, ex prigionieri, patrioti ed antifascisti rimasti nascosti, sino a poche ore prima, uscivano dagli scantinati, dalle grotte, dai vicoli e armati scendevano a gruppi nel centro dei quartieri e della città. Particolarmente aspra la lotta alla Speranzella, in via Poveri Bisognosi. I tram vengono rovesciati per impedire il passaggio ai carri armati tedeschi, barricate vengono erette in via Duomo, a porta S. Gennaro e nei vicoli che sboccano al rettifilo.
Le macchine tedesche sembrano impazzite, sfuggendo ad un gruppo di insorti incappano in un altro, i carri armati imboccano una strada e se la trovano improvvisamente ostruita da una barricata, in altri punti vengono immobilizzati da arditi attaccanti, le bottiglie “Molotov” dimostrano la loro efficacia. La lotta continua seppure senza un’unica direzione, ma estesa e dilagante come lava inarrestabile per tutta la giornata.
Si combattè successivamente anche nei pressi dell’aeroporto Capodichino, dove una pattuglia tedesca uccise tre avieri italiani e costituì un posto di blocco presso Piazza Ottocalli. Da un palazzo vicino irruppero nella piazza una ventina di giovani che ingaggiarono un combattimento con i tedeschi. La sparatoria si concluse con la morte dei tedeschi. Più tardi i cadaveri dei tre avieri vennero caricati sul cassone di un camioncino e portati in processione per le strade della città. La vista dei morti e il racconto delle atrocità tedesche alimentarono la rivolta.
Divampa la rivolta
La prima e l’ultima fucilata furono sparate dal Vomero e dalla masseria Pezzalonga. La mattina del 28 settembre 1943, alcuni giovani che si erano rifugiati nel cascinale Pagliarone per sfuggire alle retate tedesche, usciti all’aperto notarono che nel tratto di mare tra Sorrento e Capri si stavano delineando decine di navi alleate.
Convinti di un immediato sbarco americano, a frotte riaffiorarono giovani, militari ed ex prigionieri alleati nascosti dal popolo. La flotta alleata era davanti ai loro occhi, ma era bloccata da banchi di mine, i napoletani non erano però al corrente di questo e si lanciarono subito nella caccia al nemico dando così inizio alle ” 4 giornate”.
Gli scontri iniziali avvennero dunque nella zona del Vomero vecchio. Una ventina di uomini male armati, guidati da un popolano noto come ” o baccalaiuolo”, incrociarono due motociclisti tedeschi e li uccisero. Tutte le pattuglie isolate di tedeschi vennero da quel momento attaccate e ad ogni scontro aumentava la disponibilità di armi e munizioni.
Giunsero soldati in massa, ma i giovani non desistettero e si rifugiarono nel Museo di San Martino, mentre la voce si spandeva sulla città come pioggia col sole.
Nel corso della battaglia al Vomero si determina un obiettivo principale: la conquista del « centro» del quartiere costringendo i tedeschi a ripiegare da via Luca Giordano che lo attraversa diagonalmente. L’attacco viene eseguito a squadre e a balzi successivi come in una manovra di guerra regolare. Poi, dopo la furia popolare, anche la furia degli elementi si abbatte sul Vomero: un violento uragano fa sospendere le operazioni e nella notte il nemico perlustra le strade alla caccia degli insorti dileguatisi con le prime ombre.
Dagli annali degli storici della Resistenza napoletani:
I tedeschi erano ancora indecisi sul da farsi, temevano la rapida avanzata degli Alleati sbarcati a Salerno e, mentre cercavano di disarmare le truppe italiane, si preparavano ad abbandonare la città dandosi al saccheggio dei negozi.
Numerosi furono gli episodi di resistenza. In via S. Brigida un carabiniere ed un gruppo di cittadini riuscirono a catturare alcuni militari tedeschi; il combattimento accesosi all’angolo di palazzo Salerno si allarga e raggiunge l’imbocco del tunnel della Vittoria ove sono parcheggiate diverse macchine nemiche. I tedeschi che si trovano nel palazzo reale sono fatti prigionieri; a piazza Plebiscito la battaglia si protrae per due ore, conflitti scoppiano anche in via Foria, a Porta Capuana, a piazza Umberto, in via Duomo, in via Chiaia, alla caserma Metropolitana, nel quartiere Vicaria. Uomini, donne, ragazzi, soldati e marinai danno prova in cento episodi di audacia e patriottismo.
I napoletani, dunque, uscirono allo scoperto nelle prime ore del 28 settembre: erano armati alla meglio, con vecchi fucili, pistole, bombe a mano, bottiglie incendiarie che avevano subito imparato a costruire e qualche mitragliatrice leggera nascosta nei giorni dell’armistizio. Altre armi se le procurarono combattendo. Tutto ciò sconcertò il comando tedesco che non si attendeva questa reazione.
Nella notte tra il 27 e il 28 settembre la popolazione si alternò in un incessante via vai fra le caserme e le abitazioni, le donne in cerca di viveri e d’indumenti, gli uomini in cerca d’armi e munizioni.
Fu un attimo. Tutte le strade che portavano fuori della città furono bloccate da suppellettili, che piovevano dalle finestre per ostruire il passaggio all’uscita come all’entrata.
A S. Elmo, al distretto di Foria, a S. Giovanni a Carbonara, al Vasto giovani patrioti penetravano nelle caserme e conquistavano armi e munizioni. Carabinieri, agenti di polizia, operai e intellettuali, donne del popolo, artigiani, tutti uniti assaltavano i depositi di armi e munizioni in diversi punti della città. Delle armi vennero fornite persino dal convento delle monache di via Conte della Cerra e dall’Albergo dei poveri di piazza Carlo III.
I tedeschi sin dalle prime ore del mattino del 28 settembre avevano smesso di invadere le case per effettuare i rastrellamenti, ma da piazza Dante una colonna di tedeschi stava spingendo alcune migliaia di giovani catturati. Gruppi di insorti non poterono intervenire immediatamente per la forte superiorità dei nazisti, ma i giovani sarebbero stati presto liberati dalla rivolta che si estendeva con la rapidità di un incendio.
I tedeschi continuano a battersi perché vogliono lasciarsi aperta la via alla ritirata, essere padroni delle arterie principali e continuare nell’opera di distruzione degli impianti industriali della città.
Esempio maggiore di questa naturale confluenza degli sforzi insurrezionali l’azione svolta da un gruppo di patrioti che a Moiarello di Capodimonte s’impossessano di una batteria da 37/54 e riescono a bloccare per tutta la giornata il tentativo di una colonna di carri Tigre e di autoblindo tedesche di scendere da Capodichino sulla città; probabilmente, se quel tentativo fosse riuscito, la lotta popolare avrebbe avuto un corso diverso o comunque più sfavorevole e cruento.
La rivolta popolare comincia ad organizzarsi, ad individuare alcuni obiettivi da conseguire nella ininterrotta ondata del combattimento a viso aperto. Sorge la prima barricata a piazza Nazionale, vengono costituite postazioni d’arme presso il Museo, si chiarisce l’indirizzo principale sorto spontaneamente: impedire che il tedesco attraversi la città verso nord nel corso del ripiegamento e gettare cosi il disordine e il panico nelle sue truppe incalzate da vicino dagli alleati.
La prima giornata si chiude con successo per gli insorti che all’indomani, 29 settembre, vedono accresciuto il loro numero. Il 29 segna il culmine dell’insurrezione napoletana e, mentre prosegue il generoso afflusso dei giovani e degli adolescenti fra le file degli insorti (muore sotto il fuoco di un autoblindo il non ancora ventenne Mario Menichini), affiorano i primi elementi organizzativi. Al Vomero si costituisce il Comando partigiano per iniziativa di Antonino Tarsia. In ogni rione emerge nel corso della lotta una figura di «capo-popolo» intorno a cui gravitano i gruppi degli insorti: a Chiaia si fa luce Stefano Fadda, Ezio Murolo in piazza Dante, Aurelio Spoto a Capodimonte. Ovunque gli scontri diventano più intensi e persistenti.
A Capodimonte è strenuamente difeso dai partigiani del rione l’unico serbatoio rimasto intatto dall’immane distruzione ed assicurato, in seguito al successo dell’azione, il rifornimento dell’acqua potabile ad alcuni rioni ancora per due o tre giorni.
Sulle barricate s’incontrarono i popolani generosi, le umili donne che offrivano cestini di bombe, come la« Lenuccia» (Maddalena Cerasuolo).
La partigiana, simbolo dell’insurrezione popolare, emblema del femminismo anticipato di 20 anni. Negli anni in cui le donne non avevano ancora diritto al voto, anni in cui esisteva il delitto d’onore e la violenza sessuale era solo un danno alla morale, Lenuccia impedì che i tedeschi depredassero una fabbrica, parlamentò con le SS, partecipò alla battaglia del Ponte della Sanità che oggi porta il suo nome. Lenuccia con l’elmetto e la pistola è l’immagine della Napoli antifascista. In ricordo dei 168 partigiani napoletani caduti per la liberazione proviamo a raccontare a noi stessi e alle nuove generazioni la storia di una donna che nonostante la sua città fosse liberata, nonostante avesse dato il suo contributo, si paracadutò più volte tra le linee nemiche, ad Anzio e lungo la linea gotica.
I nazisti costretti a scappare
I tedeschi tentano ancora di scendere da Capodichino e da Capodimonte, con un frastuono infernale di carri armati che vomitano rabbiose sventagliate di mitraglia. “Il loro fuoco – scrive uno dei combattenti – era semplicemente terrorizzante”. Dalla parte alta della discesa di S. Teresa, sebbene sottoposti a tempestose scariche di mitragliatrici e di fucili, essi tirarono a spazzare d’infilata la rampa di S. Polito, che dovette essere sgomberata da quasi tutti gli armati, salvo pochi animosi eroi. Giunti i Tigre allo sbarramento tranviario, trovandolo davvero ostacolato, manifestarono la loro rabbia con un inutile mitragliamento delle vetture”.
Altri tedeschi con numerosi fascisti occuparono la masseria Pezzalonga da utilizzare come base per le incursioni- rappresaglia nei quartieri, e qui avvenne lo scontro finale con i patrioti vomeresi. Si combatté aspramente dalla prima mattina al tardo pomeriggio del 30 settembre. Una cinquantina di uomini si offrì per contrastare le iniziative tedesche. Alcuni giovani riuscirono ad aggirare lo schieramento nemico e a colpirlo alle spalle. A causa delle scarse munizioni i patrioti caddero uno dopo l’altro. Giunti nuovi e numerosi rinforzi, tedeschi e fascisti dovettero ritirarsi portando però con loro alcuni ostaggi, 12 dei quali vennero uccisi e 32 feriti.
Si combatte nei diversi quartieri per tutta la giornata facendo fronte ai ripetuti tentativi dei carri armati tedeschi che vogliono scendere in città con l’obiettivo, non più ormai di domare la rivolta, ma di liberare i loro camerati fatti prigionieri dai patrioti.
Temendo una spedizione punitiva, i partigiani organizzarono un posto di guardia sulla strada della Pigna, nei pressi di Soccavo. La previsione si rivelò esatta. La sera del 29 settembre un ronzio di motori mise in allarme i patrioti che erano di guardia, sistemati in una casetta rustica ad un piano. Diciotto autoblindo tedeschi e un carro armato con in testa delle moto e un’auto civile stavano avanzando lentamente e giunti all’altezza del posto di guardia lanciarono una bomba a mano e cominciarono a sparare. Iniziò un violento scontro che stupì i tedeschi per l’immediata reazione.
I tedeschi tentano un’azione in forza per reprimere l’insurrezione. Unità motorizzate situate al campo sportivo al Vomero fanno una sortita, riescono ad avere un provvisorio sopravvento in alcuni punti e catturano 47 cittadini che rinchiudono nel campo sportivo coll’evidente intenzione di servirsene come ostaggi.
I tedeschi spararono all’impazzata contro palazzi e persone, uccidendo 6 civili.
Da questo momento per gli insorti il problema principale divenne la liberazione degli ostaggi. Si trattava di una operazione rischiosa, ma che andava affrontata per evitare un massacro. Il piano venne preparato con l’aiuto di un giovane ufficiale, Vincenzo Stimolo, di un anziano professore, Antonino Tarsia e di un pittore, Eduardo Pansini. Vene creato un Comitato Partigiano nel liceo Sannazzaro e Stimolo ne divenne il capo. Egli riuscì a raccogliere molti uomini e li dispose non solo intorno al campo sportivo ma anche sui tetti e alle finestre delle abitazioni vicine allo stadio.
Gli assediati mancavano d’acqua e cominciavano a scarseggiare di munizioni. Anche la situazione degli assedianti peraltro era tutt’altro che facile.
L’assedio dei patrioti venne completato in breve tempo, dopo poche ore, infatti, i tedeschi dovettero arrendersi e chiesero di poter negoziare la resa. Una delegazione di patrioti si recò presso il Comando Germanico per discutere con il temuto colonnello Hans Scholl.
Scholl aveva assunto tutti i poteri a Napoli sin dal 13 settembre del 1943; fu lui ad ordinare la consegna delle armi, il coprifuoco dalle 20 alle 6 del mattino, la distruzione di complessi industriali, le rappresaglie contro militari italiani, l’evacuazione della fascia costiera e soprattutto la chiamata al servizio obbligatorio di lavoro delle classi tra il 1910 e il 1925.
Ai tedeschi venne chiesto l’immediato rilascio dei prigionieri, in caso contrario lo stadio sarebbe stato immediatamente attaccato. Scholl ordinò alle proprie truppe il ripiegamento e di liberare i 47 ostaggi, in cambio i tedeschi ricevettero la garanzia di poter evacuare Napoli senza essere attaccati. Così al termine della prima giornata di lotta, la guarnigione tedesca aveva abbandonato il Vomero
È, in sostanza, una capitolazione, la più grave umiliazione per lo Scholl che aveva creduto d’imporre il suo dominio alla città e che ora chiede salva la vita per i suoi soldati ad un gruppo di « straccioni» ribelli.
Vennero liberati nella notte e alle 5 del mattino il colonnello Scholl, sconfitto ed umiliato, transitava per via Roma dirigendosi al nord.
Forse pochi lo sanno, ma a chiedere la resa al comandante della piazza fu l’antifascista Masullo di Bagnoli.
La città era finalmente libera e salva per opera dei patrioti, del popolo e degli antifascisti.
Rimanevano focolai di combattimento tra partigiani e fascisti che non avevano intenzione di arrendersi. I fascisti, che collaborarono con i tedeschi, rappresentavano una piccola minoranza del popolo napoletano: ma una minoranza che ebbe tanta parte, anche nel corso delle due settimane che precedono l’insurrezione, nel sostegno delle razzie, delle ruberie, delle distruzioni, operate dai tedeschi, delle azioni di rastrellamento e di deportazione di tanti napoletani. Così uno scontro violento si ebbe a Porta Capuana, ove una trentina di fascisti, appoggiati da guastatori tedeschi, avevano occupato la sede degli Arditi. Allontanatisi i tedeschi, i fascisti, che avevano trasformato la sede in un fortilizio, continuarono a sparare sui partigiani e sulla popolazione. La morte di una donna, uccisa dal fuoco fascista, provocò la pronta reazione dei partigiani e di tutto il quartiere. Per tre quarti d’ora si svolse una vera e propria battaglia: alla fine i fascisti furono costretti ad arrendersi; Così, a Piazza Dante, i cecchini fascisti, sparando dal terrazzo del Liceo Vittorio Emanuele, provocarono numerose vittime anche tra la popolazione non combattente. Attaccati in forza dai partigiani, fuggirono attraverso i palazzi che si estendono da Port’Alba fino a Piazza del Gesù. Anche a Montecalvario, dalla caserma Paisiello, che era stata giorni prima abbandonata dalle truppe italiane, i fascisti per tre giorni seminarono il terrore tra la popolazione della zona.
Molto attivi i fascisti furono anche nel tratto che va da Piazza Cavour all’Orto Botanico. Dalla cupola della chiesa, situata di fronte alla caserma Garibaldi, essi sparavano con una mitragliatrice su combattenti e civili.
La criminale azione fascista si sviluppò in tutti i giorni dell’insurrezione popolare e solo dopo numerosi attacchi fu definitivamente liquidata.
Dalle alture di Capodimonte all’alba del l° ottobre il cannone teutonico tuonava ancora concentrando il suo tiro sulla zona che da piazza Mazzini si stende per via Foria, via Costantinopoli sino a Port’Alba portando lo sterminio fra la popolazione. Fu l’ultimo crimine perpretato in città.
Quando gli alleati però entrarono nel capoluogo, non trovarono un nemico che fosse uno. Napoli s’era liberata da sola.
Costretti alla fuga i nazisti sfogano la rabbia per il colpo ricevuto: distruggono le più preziose memorie di quel popolo che non ha piegato la testa sotto i suoi ordini, consumando un’atroce vendetta. In una villa di San Paolo Belsito, presso Nola, i tedeschi distrussero con fuoco l’archivio storico di Napoli, nella villa messo in salvo, uno dei maggiori tesori del nostro patrimonio civile, ricco di oltre 50.000 pergamene, di 30.000 volumi di documenti e di raccolte preziosissime per la storia della città, per quella dell’Italia e per quella d’Europa.
E non fu un danno involontario, poiché avvertiti gli ufficiali tedeschi dell’inestimabile contenuto di quelle centinaia di casse raccolte nella villa, e scongiurati di non toccarle, essi tuttavia ordinarono l’incendio e lo vollero totale, per quell’infernale odio, che dall’8 settembre portavano alla nostra gente e che li avrebbero spinti a distruggere l’Italia”. (Attilio Tamaro, Due anni di storia, 1943-1945)
I combattenti nelle quattro giornate di Napoli, secondo la Commissione ministeriale per il riconoscimento partigiano furono 1589, 168 i morti e alcune centinaia i feriti, mutilati ed invalidi; 140 le vittime tra i civili, 19 i morti non identificati, 162 i feriti, 75 gli invalidi permanenti.
In base alla relazione del sacerdote patriota Antonio Bellucci, “gli uccisi dai tedeschi – come risulta dal registro del cimitero di Poggioreale – fra militari, civili, uomini e donne di ogni età furono 562″
Oltre alla medaglia d’oro, Napoli ebbe altre 4 medaglie d’oro alla memoria, 6 d’argento e 3 di bronzo.
Le medaglie d’oro furono assegnate ai quattro scugnizzi morti: Gennaro Capuozzo (12 anni), Filippo Illuminati (13 anni), Pasquale Formisano (17 anni) e Mario Menechini (18 anni). Medaglie d’argento alla memoria di Giuseppe Maenza e di Giacomo Lettieri; medaglie d’argento ai comandanti partigiani Antonino Tarsia, Stefano Fadda, Ezio Murolo, Giuseppe Sances; medaglie di bronzo a Maddalena Cerasuolo, Domenico Scognamiglio e Ciro Vasaturo.
Tra le decine e decine di combattimenti, tanti giovinetti.
Il dodicenne Gennaro Capuozzo funziona da servente ad una mitragliatrice in via Santa Teresa presa sotto il fuoco di carri armati tedeschi, finché cade sfracellato, colpito in pieno da una granata sul posto di combattimento.
Ecco la motivazione della medaglia d’oro concessa alla memoria:
«Appena dodicenne durante le giornate insurrezionali di Napoli partecipò agli scontri sostenuti contro i tedeschi, dapprima rifornendo di munizioni i patrioti e poi impugnando egli stesso le armi. In uno scontro con carri armati tedeschi, in piedi, sprezzante della morte, tra due insorti che facevano fuoco, con indomito coraggio lanciava bombe a mano fino a che lo scoppio di una granata lo sfracellava sul posto di combattimento insieme al mitragliere che gli era al fianco. Prodigioso ragazzo che fu mirabile esempio di precoce ardimento e sublime eroismo”.
Filippo Illuminato e Pasquale Formisano, l’uno di tredici, l’altro di diciassette anni corrono incontro a due autoblindo che da via Chiaia cercano d’imboccare via Roma. “Lo scontro fu assai breve ma impressionante; vi fu chi vide i due intrepidi giovanetti avanzare decisamente sotto le impetuose raffiche di mitragliatrice fino a quando caddero esanimi a pochi passi dalle autoblindo, nell’atto di scagliare ancora una bomba”.
Si distinsero durante le quattro giornate, assieme agli altri combattenti, gli “scugnizzi”, ragazzi che non si riparavano dai colpi e andavano all’attacco spavaldamente come cavalieri antichi. Rifulse il loro eroismo in azioni temerarie, autentiche pazzie, compiute senza misurare il rischio pur di battere il nemico. Smentirono con la loro audacia e lo spirito di sacrificio le vecchie calunnie che indicavano Napoli come un centro di corruzione; perché un paese sia sano non è sufficiente possegga degli uomini onesti, è necessario che questi siano più audaci e più intraprendenti delle canaglie. Gli “scugnizzi” avevano dimostrato di esserlo.