Poche cose importano all’essere umano quanto il cibo, che oltre a essere una necessaria fonte di sostentamento è diventato un’ossessione culturale, nonché uno dei prodotti più onnipresenti sul mercato: viviamo bombardati da migliaia di pubblicità di alimenti di ogni tipo dall’aspetto sempre più perfetto che ci invita a consumarli. Proprio sulla bellezza del prodotto si concentra uno studio di Linda Hagen (University of South California), pubblicato su Journal of Marketing, nel quale l’autrice prova a rispondere a una semplice domanda: il cibo bello ci sembra anche più sano?
SPOT INGANNEVOLI. Lo studio di Hagen parte da una considerazione sulla natura umana: siamo naturalmente attratti dalla bellezza, e proviamo piacere ad ammirarla nonostante non ci sia utile in alcun modo. Il cibo, invece, ci deve nutrire, quindi quello che ci interessa sapere è se fa bene al nostro organismo – ovvero se è sano.
In questo senso, secondo Hagen, l’idea di pubblicizzare il cibo mostrandolo come bello dovrebbe essere controproducente, perché tendiamo a considerare bellezza e utilità come reciprocamente esclusive. Ci sono però alcuni aspetti dell’idea di bellezza (come la simmetria e l’ordine), che l’uomo tende ad associare alla natura, e tutto ciò che è naturale, ci viene spontaneo pensare, è anche sano.
MA CHE BONTÀ! La studiosa ha quindi condotto una serie di esperimenti per valutare quanto la bellezza del cibo influisca sulla nostra percezione della sua bontà. E ha scoperto, per esempio, che un toast mal confezionato viene giudicato meno sano di uno con gli stessi ingredienti ma confezionato a regola d’arte, o che i partecipanti al suo esperimento erano disposti a spendere di più per un bel peperone che per uno storto e asimmetrico.
Questo è un problema, perché significa che sul mercato ha più probabilità di successo un prodotto esteticamente impeccabile rispetto a uno meno gradevole ma più sano (per esempio un frutto proveniente da coltivazioni bio). Un problema che, secondo la ricercatrice, si potrebbe risolvere con una migliore educazione alimentare e una pubblicità più controllata.