Undici disegni sparsi sul corpo, alcuni realmente visibili, alcuni stagionali, alcuni nascosti agli estranei. Solo 11, per ora. I miei tatuaggi si possono ancora contare, posso snocciolare il significato di un tatuaggio tenendo piccole conferenze di intimità, ogni scelta è stata molto ponderata. E su quanto fa male un tatuaggio posso dire la mia. Spoiler: dipende. Non c’è una scala unica sul dolore da tatuaggio, su quanto si soffra, su quante volte nel corso della seduta ci si debba fermare a respirare, bere acqua, piangere, imprecare. C’è anche chi reagisce come in una seduta di pulizia dentale, provando un leggero fastidio che si attenua nel corso della giornata, e dopo la sessione è tranquillo come se aspettasse il bus. Le frustate di adrenalina scatenata dal corpo che reagisce all’inchiostratura lenta e paziente sono personali, punto.
Tutto è relativo e nel caso di dove fare il tatuaggio ancora di più: il dolore è una sensazione soggettiva, ciascuno di noi ha la propria soglia di sopportazione e la propria capacità di resistenza. Nella composta e sacra ritualità della cerimonia del tatuaggio, anche scegliere l’area circoscritta della superficie del corpo che vogliamo vedere abbellita dal nostro simbolo power ha la sua importanza. E conoscersi è il primo passo per capire se in quel punto il tatuaggio ci farà così male da non riuscire a sopportare nemmeno una righina sottile con l’ago, o se siamo in grado di superare con un po’ di denti stretti anche la super impegnativa sfumatura (che sì, fa più male, non c’è nulla da fare).
Il tema di oggi come avrete ben capito miei cari lettori è il tatuaggio. Una pratica di origini antichissime che risale ad oltre 5000 anni fa. Per chi non lo sapesse , il tatuaggio non è nato proprio qualche anno fa: sì magari col tempo, con le nuove strumentazioni, grafici, si è nettamente evoluto, certo, ma ha origini antichissime. Lo stesso termine, tatuaggio, fu utilizzato per la prima volta da James Cook, il quale scrisse la parola Tattow, (poi tattoo) che deriva da “tau-tau”, termine che ricordava il rumore prodotto dl legno che picchiettava sull’ago per incidere la pelle.
Nicolai Lilin affermava che, “I tatuaggi bisogna «soffrirli». Dopo aver vissuto qualcosa di particolare, lo si racconta tramite il tatuaggio come in una specie di diario.” Ebbene, a confermarlo anche GianMaurizio Fercioni non è un semplice tatuatore, ma forse il padre del tatuaggio in Italia, il primo ad aprire a Milano nel 1974, quando neppure esistevano norme che regolassero queste attività.
In una sua vecchia intervista rilasciata al collega C. Baroni ha raccontato «Quando c’è crisi io lavoro di più: la gente in questi momenti si appropria di cose che nessuno può portare via, come i tatuaggi. Anche in tempo di guerra c’era sempre movimento attorno ai Tattoo Studio americani, che avevano addirittura sconti per i ragazzi che andavano in Vietnam. Un tatuatore dovrebbe far affiorare sulla pelle quello che c’è già sotto: i tuoi amori, inganni, sogni, incubi, e a questi non c’è crisi che importi».
Fercioni alle spalle ha oltre 50 anni di carriera. Ha tatuato i rampolli della migliore aristocrazia italiana, come i figli di Amedeo Savoia duca d’Aosta, Bianca e Aimone. Ma anche legionari ed ex detenuti di San Vittore. E il pugile Rocky Mattioli, campione del mondo, il regista da Oscar Gabriele Salvatores. Nato in zona Brera nel 1946 e discendente da un’antica famiglia di origini pisane, Gian Maurizio Fercioni è stato il primo ad aprire uno studio di tattoo in città, nel 1974. In via Mercato 16 ha allestito anche un museo sul tema, con tavole e attrezzature da ogni parte del mondo. Ha scelto di chiamare l’attività “Queequeg”, come l’arpioniere polinesiano tatuato che compare in “Moby Dick”. Il libro che più l’ha segnato, ispirandogli l’idea della vita come avventura.