di don Gennaro Pagano
Ieri pomeriggio mentre ero in auto per andare a tenere una lezione sull’abuso nella chiesa e sulla tutela dei minori e delle persone vulnerabili agli alunni di un corso sulle relazioni di aiuto, mi arriva un messaggio di un amico con la lettera di dimissioni di Reinhard Marx. Un gesto forte, drammatico, dall’alto valore simbolico e, al di là di ogni dietrologia motivazionale, sintomatico di un malessere che non può essere più gestito con palliativi ma che necessita piuttosto una cura profonda capace di incidere sull’integrità del corpo ecclesiale. Nel materiale preparato per la lezione avevo annotato un’espressione molto vicina ai termini utilizzati dal cardinale bavarese che ha poi ha destato l’attenzione degli alunni: “Il sistema ecclesiale per come è configurato attualmente è un fattore di rischio per i comportamenti abusanti”. Mi rendo conto che è un’affermazione dura e che potrebbe suscitare perplessità se detta con disinvoltura da un semplice prete ma la conoscenza della tematica e le considerazioni etiche e scientifiche che mi derivano dall’essere psicologo e psicoterapeuta mi spingono a pronunciarla senza tentennamenti. Ed è per questo che non mi stupisce affatto che Marx abbia parlato di «fallimento istituzionale e “di sistema” (…) che richiede cambiamenti e riforma della Chiesa».
Uno degli errori più grandi che la chiesa potrebbe fare e che forse sta facendo sulla questione dell’abuso è di considerarlo come un problema esclusivamente pratico e relativo al comportamento disdicevole di una chiarissima minoranza da condannare. È la storia della mela marcia da isolare per salvare l’ampia cesta delle mele belle e saporite. Ma quest’atteggiamento in una visione sistemica (e non a caso il cardinale Marx parla di sistema!) non ha ragion d’essere perché la mela marcia è espressione e sintomo di un’intera cesta di mele mal conservata e pertanto a rischio di diventare marcia per intero. Per questo per evitare realmente altre decomposizioni non basta gettar via la mela andata a mare ma intervenire sulle regole di conservazione, cambiandole, adeguandole, riformandole.
Questo mi sembra il messaggio più importante – e assolutamente condivisibile – contenuto nella lettera al Papa resa nota ieri. Senza una riforma seria della chiesa non è possibile dire che si sta affrontando realmente il problema degli abusi sessuali e il problema degli abusi sessuali è semplicemente la punta di un enorme iceberg che riguarda questioni diverse che rischiano di inficiare ciò che per cui la chiesa nasce e la tanta bellezza che contiene: annunciare il vangelo e contribuire all’edificazione del regno. Sarebbero numerose le questioni da trattare ma credo che almeno tre siano necessitanti di un’esplicitazione chiara capace di porre domande oneste e inevitabili: il clericalismo, la sinodalità, l’autoreferenzialità.
Papa Francesco fin dall’inizio del suo servizio petrino ha denunciato in tutti i modi possibili la malattia del clericalismo, indicandone i tratti, spiegandone l’infondatezza evangelica, mostrando le giuste vie spirituali per uscirne e prevenirla. Ma basta tutto questo? È davvero pensabile che l’orientamento e la prassi soggettiva – da cui ovviamente non si può prescindere e che è il cuore di ogni cammino di conversione – bastino da soli ad arginare la malattia? A mio avviso la chiesa sta correndo il rischio di inquadrare bene la malattia ma di ignorare (forse per timore) il contesto ambientale che l’ha prodotta, i presupposti che le hanno consentito di radicarsi. Non vi è in tal senso la necessità di ricomprendere e approfondire ulteriormente l’attuale teologia del sacramento dell’ordine per eliminarne alla radice i presupposti dottrinali e canonici che rischiano di continuare a far credere ai presbiteri di appartenere ad una classe “scelta”, “separata”, a cui sono conferiti ruoli e poteri non per gli altri ma sugli altri? Il senso del potere sacrale è e resterà sempre un humus fertile per gli abusi di potere, di coscienza, economici e sessuali.
Una via sana per superare ogni forma di clericalismo potrebbe senz’altro essere quella della sinodalità che spingendo l’intero popolo di Dio a camminare insieme ha in sé la potenzialità per evitare ogni forma degenerazione del potere e dei ministeri. Ma con onestà bisogna constatare che la parola sinodalità pur essendo tra le più usate degli ultimi decenni ecclesiali è diventata una vetrina vuota in cui questo gioiello è stato ridotto ad un puro orientamento spirituale o ad un brand dietro cui si celano le solite logiche di potere per le quali, chi siede su una cattedra sacrale, preconfeziona cammini e mete chiedendo solo dopo al resto del gregge di arrivarci insieme, facendolo – come si dice dalle mie parti – “fesso e contento”. La sinodalità tra vescovi e presbiteri come quella tra presbiteri e laici è nei fatti lasciata alla discrezionalità, alla fede e all’intelligenza dei ministri perché il sistema canonico rende ogni confronto meramente consultivo e mai vincolante rispetto alle scelte concrete. Un vescovo può convocare mille riunioni, consultazioni, laboratori per poi fare esattamente il contrario. Cosi un parroco. Senza una riforma delle leggi canoniche che regolano la prassi ecclesiale la sinodalità e destinata a rimanere una parola vuota nelle mani del clero e di trasformarsi in prassi concreta solo quando è pronunciata da uomini onesti e in sintonia con il Vangelo.
Proprio il Vangelo, adombrato dall’autoreferenzialità ecclesiale, appare il grande assente quando si parla di riforma e anche qui condivido la motivazione del gesto clamoroso che, a detta dell’interessato, è volto «dimostrare che in primo piano non è l’incarico (l’isitiuzione? ndr.) ma la missione del Vangelo». Fiumi di inchiostro danno vita a migliaia di documenti e comunicazioni che si traducono in un parlarsi addosso senza cambiare neanche di un millimetro la prassi. La sensazione è che le resistenze all’interno della comunità ecclesiale nascano sempre più dal timore di perdere sicurezze secolari, paradigmi certi e non di rado privilegi narcisistici sempre meno in sintonia con la comprensione del Vangelo e il servizio integrale all’uomo integrale. La chiesa dovrebbe pensarsi come una realtà fragile e sempre precaria, capace di lasciarsi mettersi in discussione con parresia e lealtà ogni qualvolta le esigenze storiche del Vangelo lo richiedono. Ma quando la conservazione dell’esistente e la preservazione del sistema istituzionale sono alla base delle sue scelte il suo cammino sarà sempre idolatrico e non a servizio del Dio vivente dell’uomo vivente. Sarà una religione perfetta ma senza fede. Un’istituzione granitica ma senza Spirito. E gli abusi continueranno a ripresentarsi sotto svariate forme perché la febbre, quando non si cura la malattia, è destinata a risalire.
don Gennaro Pagano
Prete, psicologo e psicoterapeuta