Nun ce sta niente a’ fà: tutti vorrebbero sempre vincere. Nessuno contempla la possibilità della sconfitta, nessuno si immagina che a vincere possa essere, qualche volta, l’avversario più forte, più fortunato, più in forma. Ricordo fior di uomini “per bene” e maturi, a bordo dei campetti di basket dove il proprio figlio si confrontava sotto canestro con altri bambini, trasformarsi nei peggiori e più violenti degli ultrà, sfogando le proprie frustrazioni e forse ataviche ambizioni represse. Con somma vergogna dei bambini stessi e fastidio dell’allenatore. O quei pregiatissimi mister delle categorie giovanili di squadre di calcio, sconosciute o blasonate, che insegnavano (e credo lo facciano ancora) agli attaccanti a tuffarsi in area per simulare un fallo subito, o ai difensori a trattenere fallosamente l’avversario in area senza che l’arbitro se ne avvedesse.
Ma da queste “buone pratiche” cosa ne può venire?
Il calcio e quell’ambiente, sono l’inevitabile risultanza di questo modo di intendere la competizione sportiva, che di De Coubertin non sa nemmeno chi sia stato ne per cosa passò alla storia. Il tifoso vuole vincere, lo deve a se stesso perché è lì per questo, ed è automatico sperare di poterlo fare attraverso la propria squadra del cuore. Spesso risulta utile per dare a se stessi l’illusione di riscattare una vita, dove ci si sente perdente, secondario, ininfluente, se va bene comprimario, a volte “miglior dipendente non protagonista”. Sentirsi partecipe di un trasporto emotivo collettivo, insieme a propri simili, può rendere il sogno realizzabile, l’amplificazione del proprio io nella massa rende la vittoria esaltante e la sconfitta, diluita in una moltitudine, è meno frustrante. Il tifoso ultrà spesso, anzi quasi sempre, non va allo stadio per godersi lo spettacolo, per gioire di una inattesa sforbiciata o di un gol impossibile, ma scende nell’arena ad incontrare i propri simili in un orgia di parole d’ordine convenzionali, slogan, male parole, cameratismo, hashish e bombe carta. Dando facile ed impunibile sfogo alla propria aggressività repressa, avendo la certezza di avere di fonte un nemico sicuro da combattere, quello con i colori della maglia della squadra avversaria ed i suoi sostenitori. Il tifoso comune e ottenebrato, non contempla e non ammette fino in fondo la realtà e dimostra la propria cecità, rifiutando di accorgersi del fatto che da decenni, lui ormai rappresenta esclusivamente un target finanziario, dal quale prelevare soldi attraverso diritti video, sponsor e merchandising di società, si per azioni, ma orientate ad utile, capitale e potere.
Società spesso lavatrici di danaro sporco o strumento efficacissimo di elusione fiscale per la ridotta tassazione che la legge concede alle società sportive “senza fini di lucro” e per ingaggi e costo dei cartellini sui quali i controlli sono, il più delle volte, inesistenti. Ingaggi e costi dei calciatori spesso gonfiati per costituire riserve di danaro in nero che alimentano altra ricchezza, con la complicità di procuratori, faccendieri ed intere articolate organizzazioni. Soprattutto internazionali.
E cosa dire di ciò che ruota intorno alle scommesse ed agli innumerevoli sportelli dai nomi altisonanti dove una umanità disperata si aggrappa alla speranza fino ad arrivare alle patologie del gioco e della “bolletta”? E allora ci si gonfia il petto per la coppa o lo scudetto e si sogna l’arrivo di Messi o il ritorno di Maradona (con trent’anni di meno) oppure affiorano delusioni ed aspettative disattese, e fioccano improbabili accuse al “pappone di turno che tiene per sé tutti i soldi guadagnati e non ci compra il campione del momento che ci faccia vincere” svergognando il nemico. Confondendo un imprenditore miliardario perché abilissimo con il comune ragazzo ultrà addetto al posizionamento degli striscioni in curva B.
La violenza negli stadi non si verificherebbe se riconquistassimo al calcio il giusto merito dello sport e ne riscoprissimo i valori dei tempi che furono. La sana competizione, l’agonismo senza esasperazioni plateali, senza i Cassano o i Balotelli, (emblemi ideali) la lealtà ed il profondo rispetto per l’avversario e per gli arbitri, dentro il campo e davanti alle telecamere.
La trasparenza ed il controllo delle società in tutti i loro atti, a cominciare dal giogo al quale sono spesso costrette a soccombere per i ricatti di branchi di prepotenti camorristi e violenti facinorosi. E questo apparire, questo divismo, questa idolatria pagana per dei ragazzi che hanno un età media di 24 anni, questa aberrazione finanziaria con cifre paradossali che trovano un fondamento non certo nei valori dello sport ma soltanto in quelli del business.
Mio padre, gran lavoratore ed appassionato di calcio, oltre che discreto calciatore dilettante, diceva sempre: “i calciatori dovrebbero essere considerati per ciò che sono: manovali. Cosa cambia se al posto delle mani usano i piedi?” Cambia, papà, purtroppo cambia. Che lo show business continui, seppure alcuni di loro, a volte, sembrano proprio dei manovali del calcio. Ma almeno, quando sputano, non sarebbe possibile evitare di inquadrarli in primo piano? Grazie!