Sono stata un po’ di giorni in silenzio. Ho dato attenzione a tutti i punti di vista. In silenzio ho provato ad immedesimarmi. Che forse, oggi, è la cosa che mi riesce meglio.
La questione diritto all’aborto è da sempre fonte di discussione e dibattiti, perché di solito coinvolge l’insieme di valori di una persona, dalle sue credenze morali a quelle politiche.
Il 1 settembre è entrata in vigore in Texas la legge che vieta l’aborto oltre il mese e mezzo di gravidanza annunciata da tempo, e nessuno per ora, nemmeno la Corte Suprema, riesce a trovare la formula per contestarla come violazione di un diritto costituzionale.
Lì, nell’alta corte, che negli Usa è il giudice di ultima istanza, nel senso che contro le sue decisioni non è dato ricorso, si doveva decidere intorno alla più più severa contro il diritto all’aborto del paese, ma non è andata bene. Al contrario, è andata nel peggiore dei modi, ed ora in Texas è ufficialmente in vigore la legge che vieta alle donne di interrompere una gravidanza dopo la sesta settimana. L’hanno chiamata “heartbeat ban”, il “divieto del battito cardiaco“, perché fissa all’attimo in cui viene rilevato il primo battito fetale il momento cruciale dopo il quale qualsiasi pratica di aborto, anche nei casi di stupro e incesto, diventa illegale. Sei settimane, tuttavia, sono un lasso di tempo talmente piccolo, che moltissime donne ancora non sanno neppure di essere incinte. Ecco perché è la legge, firmata dal governatore repubblicano Greg Abbott a maggio, più radicale tra tutte quelle volute dai repubblicani negli ultimi anni: perché gioca sul fatto che o ci si munisce di test di gravidanza (per altro costosi) e a ogni minimo ritardo si fa una verifica, o si usano, ed è certamente consigliabile in ogni caso, tutti i contraccettivi disponibili sulla piazza (ma non stupirebbe che medici o farmacisti obiettori possano rifiutare di prescrivere o vendere la pillola, per esempio), o ci si astiene.
Ma che in Texas si facesse molto sul serio, sulla questione, s’era capito: basti dire che a luglio Abbott ha redatto un provvedimento che incentiva le persone a far rispettare la legge grazie ad un premio di 10.000 dollari (o più) a chiunque citi con successo qualcuno che fornisce o assiste una donna che prova ad avere un aborto dopo le sei settimane di gravidanza. Anche i leader religiosi che forniscono consulenza emotiva e spirituale ai pazienti potrebbero essere soggetti alla legge e ricevere la “taglia” in cambio della violazione del segreto del confessionale. Detto da un’altra angolazione, quella della minaccia, secondo la nuova legge (che un gruppo di medici, clero e proprietari di cliniche ha già citato in giudizio) chiunque potrebbe essere portato in tribunale da uno sconosciuto, senza alcun legame con il paziente, e costretto a pagare un minimo di 10.000 dollari, più spese legali, “per aver favorito o per favoreggiamento diretto di un aborto”. Non c’erano dubbi, dunque, sulla tenacia con la quale il governatore repubblicano avrebbe portato avanti la sua battaglia, ma c’erano, tuttavia, speranze riguardo la decisione finale della Corte Suprema.
Nelle prime proteste, il Texas è stato ribattezzato “Gilead” come la nazione immaginari in cui si svolge la saga di The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood, è molto più ingegnoso e rende difficile trovare il modo per delegittimare il provvedimento. “I talebani adorerebbero la legge sull’aborto del Texas”, ha twittato per primo Stephen King ispirando l’hashtag #TexasTaliban.
L’opinione pubblica negli Usa è infatti concentrata sul recente attentato a Kabul in cui, fra le 60 vittime, ce ne sono 13 statunitensi e la questione aborto fatica a trovare spazio nel dibattito. Da sempre sensibile alle women’s issues tanto da avergli dedicato la raccolta di racconti Notte buia, niente stelle, Stephen King ha cercato di riportare l’attenzione sulle violazioni dei diritti delle donne negli Usa con una provocazione, ma in realtà anche la sharia islamica è più permissiva su questo argomento.
Nel Corano non ci sono indicazioni sull’aborto volontario, per cui i governi dei paesi a prevalenza musulmana in genere agiscono a loro discrezione. Ma dato che per l’Islam il feto viene considerato un essere vivente solo dopo 120 giorni di gestazione, nessuna legge a riguardo è peggiore di quella texana.
Anche il presidente Biden fa sentire la sua voce dalla Casa Bianca ha fatto sapere in una nota che ha denunciato la norma che «viola palesemente il diritto costituzionale stabilito dalla sentenza Roe v Wade» nel 1973. Assicurando che la sua amministrazione «proteggerà e difenderà il diritto» all’aborto contro questa «legge radicale».
Per adesso, fino a quando la Corte Suprema non troverà un modo per contestare e abrogare il provvedimento texano, le donne di quello Stato dovranno ricorrere ai test di gravidanza molto precoci al primo accenno di ritardo, sperando di non rientrare nella minoranza di gestanti che continuano ad avere il ciclo anche quando sono in attesa, e che non si torni, nel XXI secolo, alle pratiche barbariche degli aborti fatti in casa.