Morto l’attore William Hurt a 71 anni, vincitore dell’Oscar 19686 per il film “Il bacio della donna ragno”.
Un’infanzia segnata dal divorzio dei genitori, un’adolescenza toccata dalla prematura morte della madre, una vita matrimoniale turbolenta, una vita professionale turbata da abusi fisici, l’uso di droga non hanno impedito all’attore, nato a Washington nel 1950, una carriera folgorante, baciata dal successo fin dalla prima interpretazione, “Stati di allucinazione” del 1980.
In lui il regista Ken Russell colse l’espressione stupita e profonda dei grandi occhi azzurri, il fuoco trattenuto dello spingersi sempre all’estremo, la dicotomia tra una recitazione così naturale da apparire invisibile e un’incoercibile dolore interiore.
I primi film
Subito candidato al Golden Globe come miglior attore emergente, Hurt deve l’immediata conferma un anno dopo a un altro regista inglese, Peter Yates che in “Uno scomodo testimone” lo trasforma nel guardiano notturno Darryl Deever, trascinato in un losco intrigo internazionale per amore dell’anchorwoman Sigourney Weaver.
Nello stesso 1981 il giovane attore fa l’incontro della vita (professionale) e si ritrova, in una sola notte, eletto a sex symbol per il pubblico mondiale e star di Hollywood. E’ infatti Lawrence Kasdan a volerlo come protagonista del noir “Brivido caldo” dal racconto di James C. Cain.
Sul set attore e regista sviluppano un’intesa artistica che è anche autentica amicizia tanto che faranno “coppia fissa” altre quattro volte, da “Il grande freddo” dell’83 a “Figli di un dio minore” (1986).
Intanto però la carriera del nuovo divo ha preso anche altre strade. Ha rinnovato il suo successo nel thriller con “Gorky Park” di Michael Apted (193), è stata coronata dall’Oscar come miglior attore per “Il bacio della donna ragno” di Hector Babenco (1985) dal claustrofobico romanzo di Manuel Puig.
La nuova fase della sua carriera
Negli anni ’90 William Hurt coglie i frutti di una carriera sempre molto attenta nelle scelte e spesso costruita sulla sensibilità di autori dall’indole europea. E’ il caso di Woody Allen in “Alice” (1990) e Wim Wenders (“Fino alla fine del mondo” del ’91).
Ma è anche l’inizio di una nuova fase nella carriera dell’attore, talvolta tentato da incursioni nel più classico cinema autoriale. Finché nel 2001 si ricorda di lui Steven Spielberg per uno dei suoi film più ambiziosi e meno considerati, “A.I. – Intelligenza artificiale“.
Seguiranno alcune collaborazioni maiuscole come “History of Violence” di David Cronenberg (2005), “The Good Shepherd” di Robert De Niro (2006), “Into the Wild” di Sean Penn.
Gli ultimi fuochi della sua luminosa carriera coincidono con la disponibilità a vestire i panni del comprimario in più di un “giocattolone” alimentato dal mito dei supereroi dentro e fuori dal mondo Marvel. Così è stato anche di recente per “Black Widow” o il militaresco “Era mio figlio” di Todd Robinson.
Tra pochi mesi avrebbe dovuto opporsi all’incredibile Hulk in una ennesima variante del fumetto fatto cinema, ma la sua ultima interpretazione resterà quella del Pere La Chaise ne “La figlia del re“.
Resta quindi il rimpianto per un interprete veramente multiforme, ma che da troppo tempo aveva mandato in soffitta il fuoco segreto del suo talento. (ANSA)