Prima di analizzare la situazione del lavoro nelle carceri campane, proviamo a richiamare, per sommi capi, la cornice normativa dentro la quale si ascrive la nostra iniziativa nel carcere di Secondigliano. L’art. 15 della l. 354/1975 – Ordinamento penitenziario (o. p.) , individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa.
Le caratteristiche e le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa delle persone in stato di detenzione sono definite dall’art. 20 come riformato dai d.lgs. 123 e 124/2018 che hanno recepito, intervenendo anche su altri articoli della legge, parte delle proposte elaborate durante i lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale.
Sostanzialmente le modalità in cui è articolato il lavoro penitenziario possono realizzarsi sia alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, sia alle dipendenze dei soggetti esterni e sono riconducibili allo schema del rapporto di lavoro subordinato di diritto privato.
LA SITUAZIONE IN CAMPANIA
Nella nostra regione, su 6.853, solo il 34 per cento, sono impiegati in attività lavorative.
Nella maggioranza dei casi, si tratta di lavoro a tempo ridotto e tra coloro che lavorano 2.641 sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. E una quota ancora più esigua, pari a 159 persone e quindi all’incirca il 2 per cento, presta servizio in imprese o in cooperative esterne agli istituti di pena.
E’ chiaro che il numero di detenuti impegnati in attività rilevanti è troppo basso. Ad esempio, a Poggioreale risulta essere meno de
13%»* (fonte Antigone).
Tutto ciò, con buona pace della Costituzione, secondo la quale il lavoro, insieme all’istruzione e alla formazione, rappresentano i pilastri di una civile esecuzione penale che deve tendere alla rieducazione del condannato, e favorire, dopo l’espiazione della pena, un percorso di reinserimento nel mercato del lavoro.
In distonia con questo principio alcuni dati risultano allarmanti!
Emblematico il caso di
Poggioreale dove si contano 346 lavoranti, tutti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (all’incirca il 13%), su una
popolazione detenuta che supera le 2mila e 300 unità. Poco brillante anche la performance di Santa Maria Capua Vetere
: 213 persone impiegate nel lavoro inframurario e dieci in quello extra-murario a fronte di 966 presenze. Sull’altro
fronte, tra gli istituti più virtuosi, figurano quello di Sant’Angelo dei Lombardi , con i suoi 98 lavoranti su 176 presenze, e la Casa Circondariale di Lauro, dove risultano impiegate otto madri su 12. Appare evidente, dunque, che su questo versante resta
ancora molto da fare .
Infatti, se solo ci rifacciamo alla tabella riepilogativa del Ministero della Giustizia che comprende tutte le cooperative sociali e le imprese autorizzate a fruire per l’anno 2021 delle agevolazioni fiscali e contributive ai sensi della Legge 193/2000(Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti), risulta netta la differenza tra l’offerta proposta in Campania e quella proposta in Lombardia.
Regione Cooperative Sociali ed Imprese Campania 14
Lombardia 96
Su quest’ultimo dato alcune considerazioni sono doverose. A mio parere, su tale evidente squilibrio, non basta chiamare in causa la differenza strutturale del tessuto produttivo campano rispetto a quello lombardo, poichè esso rappresenta solo una concausa e nemmeno troppo rilevante; occorre invece ancora una volta sottolineare la mancata propensione a concepire il lavoro come elemento
del trattamento nell’esecuzione penale, favorendo un percorso di autonomia nel soggetto detenuto.
E questo, anche alla luce dei ripetuti segnali che il legislatore ha inteso inviare dentro e fuori dal carcere, assegnando al lavoro, un ruolo fondamentale del trattamento del detenuto. Va infatti, in questa direzione anche la Legge del 2000, n° 193 “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti” ; la cosiddetta Legge Smuraglia.
Come dicevo, registriamo invece una innaturale sottovalutazione delle possibilità e delle potenzialità del lavoro come leva di risocializzazione sia all’interno della comunità giudiziaria che della società civile e del sistema imprenditoriale.
Lo dimostra lo scarso ricorso al lavoro di pubblica utilità a fronte di una composizione detenuta campana che ha il 35%
di persone detenute con un residuo pena al di sotto dei tre anni e un terzo della popolazione carceraria che ha problemi
di tossicodipendenza e che andrebbe inserita, in collaborazione con il Sert, in programmi di inserimento sociale anche attraverso attività lavorative.
COSA E’ POSSIBILE FARE lo vedremo nel prossimo articolo.