Sono passati due anni dalla morte di Gino Strada, è trascorso un anno dalla morte di Piero Angela, mentre da pochi giorni è morta Michela Murgia. Tutti questi grandi personaggi sostenevano di non aver paura della morte.
Certo, siamo in pieno agosto, fa caldo, per lo più si sta al mare a rilassarsi: il massimo impegno che ci si concede in questi casi è parlare di prova costume, posti da visitare, sandali all’ultima moda, cocktail rinfrescanti. Invece è proprio nella spensieratezza che si riflette al meglio.
Non siamo (più?) abituati a parlare della morte, andare oltre un commento veloce sulla notizia di cronaca del giorno ci mette a disagio.
Eppure c’è chi, come Michela Murgia, decide di raccontare la sua morte attraverso le sue proprie parole e non quelle degli altri, attraverso la sua voce, con le sue storie di Instagram, con la sua scrittura. Dinanzi a questa lucidità, alla consapevolezza, alla capacità e alla serenità nel farlo è impossibile ancora oggi, che lei non c’è più, rimanere indifferenti. Nel bene e nel male.
Nelle società più olistiche della nostra la vita e la morte esistono in un rapporto di reciproca dipendenza, all’interno di una dimensione complessa e non dicotomica come è invece la visione occidentale.
Basti questo, a prescindere da discorsi più prettamente filosofici e religiosi, per farci riflettere sul nostro approccio alla morte e al lutto. Il progresso tecnologico e scientifico hanno poi fatto la loro parte per farci credere eternamente giovani e immortali. Un’illusione che si rispecchia anche nel linguaggio dove tutto ciò che riguarda la morte ha cambiato scaramanticamente forma: non “è morto” ma “è venuto a mancare”, non “morte” ma “decesso”, non “bara” ma “feretro”, non “cadavere” ma “salma”.
Invece parlare della morte come una cosa normale della vita, porsi delle domande sul senso della vita, su ciò che può esserci dopo la morte è fondamentale per una maggiore coscienza nel compiere le nostre scelte.
La vera immortalità, il vero senso dell’appartenenza al sistema sociale e alla rete sociale sta nella trasmissione del patrimonio culturale di generazione in generazione, ciò avviene proprio attraverso la morte di quelle più vecchie e la vita delle nuove.
Dovremmo prendere esempio dal paese più felice del mondo, il Bhutan. I Bhutanesi, secondo uno studio americano, semplicemente non hanno paura della morte. Anzi ci pensano almeno cinque volte al giorno, dato che in Bhutan morire è molto facile, ma trasformano questi pensieri in entusiasmo per rendere migliore il presente.
Dovremmo ricostruire e aggiornare il senso della morte. Dovremmo farlo nostro attraverso un linguaggio appropriato, una riflessione condivisa affinché si arrivi a una rappresentazione equilibrata e matura della morte stessa.
Si potrebbe cominciare, per esempio, pianificando nei minimi dettagli il proprio funerale. Perché no?
Grazie a Lisa Martignetti, operatrice funebre e unica funeral planner italiana, è possibile scegliere con una diversa consapevolezza come si vuol essere ricordati, come preparare l’ultimo saluto così da non lasciare ai parenti l’urgenza di farlo al posto nostro.
Non una semplice agenzia funebre ma una figura che organizza il funerale in base alla persona e ai desideri del cliente: dal tipo di sepoltura, al rito, all’outfit, alle decorazioni, alla playlist musicale fino alla lista degli invitati e dei non-invitati.
Sui social “La ragazza dei cimiteri”, questo il suo nickname, cerca di decostruire il tabù della morte raccontando anche retroscena e curiosità del suo mestiere ma sempre con un approccio delicato, senza irriverenza.
La sua community è molto numerosa, segno dei tempi che cambiano o che sono pronti a cambiare.
Rosalba Carchia