Americani, norvegesi, giapponesi: i premi Nobel, come ogni anno, riuniscono gente da tutto il mondo e, nel bene e nel male, riescono sempre a far parlare di sé. Da qualche parte c’è sempre qualcuno pronto a dichiarare che l’ambito premio andava assegnato a questo piuttosto che a quell’altro, e fin qui non c’è nulla di cui doversi stupire. L’assegnazione di un riconoscimento così importante lascerà sempre qualcuno scontento, che si tratti di un probabile candidato, dei suoi sostenitori, anche di un Paese intero e del suo governo. Si va dalle semplici lamentele ai casi ben più gravi, come quando, nel non lontano 2010, Liu Xiaobo, il primo cinese ad essere insignito del Nobel per la Pace mentre ancora risiedeva in patria, pagò quel premio con gli arresti domiciliari della moglie Liu Xia, segregata dal resto del mondo assieme al marito (anch’egli già in carcere) perché nessuno potesse seguire il loro esempio pericoloso e sovversivo.
Del resto, il Nobel per la Pace porta con sé una responsabilità ancora più alta rispetto alle altre categorie premiate dall’Accademia svedese: qui, infatti, non si tratta (soltanto) di omaggiare e gratificare i risultati raggiunti in una determinata disciplina, ma di aprire uno spiraglio di riflessione, di portare l’attenzione globale sulle realtà meno fortunate, sulle crepe aperte nella società da un terremoto di violenza e di ignoranza che soltanto l’impegno civile di tutti può aiutare a chiudere. Si tratta di far luce sulle vessazioni e sulle iniquità che troppo spesso restano all’oscuro anche in territori non lontani da noi.
Quest’anno, il premio andrà agli attivisti Malala Yousafzai e Kailash Satyarthi, la prima una studentessa pakistana che da anni si batte in favore dei diritti civili e del diritto all’istruzione per le donne nel suo Paese, il secondo, indiano, noto per il suo impegno contro lo sfruttamento minorile. Coi suoi soli diciassette anni, Malala è diventata la più giovane vincitrice nella storia dei premi Nobel. Lo scorso anno, nella sede dell’ONU a New York, aveva detto che non avrebbe smesso di lottare affinché l’istruzione fosse garantita a tutti, di non avere paura di nessuno, neanche di coloro che, appena un anno prima, quand’aveva solo quindici anni, le spararono alla testa per metterla a tacere per sempre. Malala sa benissimo che la penna e le parole sono le armi più forti e più temute dai talebani, e da tutti coloro che si servono della repressione e della violenza per non dare voce a chi porta con sé aria di cambiamento. La Yousafzai viene da Mingora, una città pakistana dalla vita turbolenta attualmente controllata dall’esercito locale, e il premio le è stato conferito in un momento assai delicato per via delle tensioni tra India e Pakistan: tensioni di cui a fare le spese è stato ed ancora il Kashmir, dove le notizie dell’ultima ora danno conto di altri morti tra la popolazione civile.
Kailash Satyarthi, sessant’anni, da parte sua, ha dedicato gli ultimi due decenni della sua vita a liberare oltre 80.000 bambini da varie forme di schiavitù assieme alla sua organizzazione Bachpan Bachao Andolan, con cui si impegna a fare sì che il numero di bimbi che ogni ora scompare in India a causa del traffico di essere umani possa diminuire sempre più. A entrambi, il Nobel per la Pace con la seguente motivazione: «per la loro lotta contro la soppressione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione».
Altro caso, ma non del tutto dissimile, è quello del francese Patrick Modiano premiato con il Nobel per la Letteratura, “Per l’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inesplicabili e scoperto il mondo della vita nel tempo dell’Occupazione”. I più maligni direbbero che le sue chance sarebbero state molto al di sotto di quelle di altri più famosi colleghi, come Joyce Carol Oates, Philip Roth, Milan Kundera o Umberto Eco (tutti candidati), se non si fosse occupato di quella piaga della storia recente che è il Nazismo. Perché, al di là dei temi portanti della sue opere letterarie come il senso dell’abbandono e il ricordo dei genitori, gli anni della Parigi occupata dai soldati tedeschi si impongono con forza e ostinazione nelle pagine dei romanzi del semi-sconosciuto scrittore (ma in realtà già pluripremiato in patria).
Non starà a noi dibattere in questa sede dei meriti letterari della sua opera. Il punto è un altro, e cioè che, sia che si tratti di letteratura o di impegni umanitari, sia che si tratti dell’odierno Pakistan o della Francia del novecento, che si parli di guerra o di bambini bisognosi, in qualunque momento e in qualunque luogo vale la pena di tornare a riflettere su quel che è stato e su ciò che è adesso, per non dimenticare il passato e per cambiare il presente. Ed è proprio questo che ci si aspetta anche da una semplice medaglia.
Andrea Vitale