Nell’Inghilterra piena di ristoranti, centri commerciali, catene di negozi, si notano, spesso, piccoli shop dalle vetrine particolari con all’interno tanti vestiti ma anche libri, cd, collane, bracciali, tazzine o suppellettili per la casa. Di solito è tutto usato ma non è inusuale trovare cose nuove. La “patria” dell’occasione per molti, soprattutto donne.
Come funzionano, in realtà? Anche i Charity Shop fanno parte di catene diffuse in tutta la nazione, raccolgono gratis di tutto e lo rimettono in vendita, spesso, ad un prezzo irrisorio. Sono aperti con orario da ufficio, il personale che lavora lo fa per volontariato ed il ricavato, infine, è devoluto alle associazioni benefiche a cui sono iscritte.
Sembrano, e forse sono, il “volto umano” del capitalismo anglosassone. A spendere, almeno all’apparenza, ci sono persone di tutte le estrazioni sociali, che lo fanno per l’etica o per piacere, per principio o per esigenza. La filosofia di fondo che muove questo “business” è il riutilizzo, il riciclo, di tutto quello che è stato poco utilizzato. Non sono certamente una novità da noi, abituati ai mercatini delle pulci o ai mercati dell’usato “garantito”. Fermandosi a guardare i vestiti si trovano praticamente di tutte le marche: da quelli low cost di Primark a griffe costose anche della moda “Made in Italy”, che siano usati o anche nuovi.
Ma se la faccia buona della medaglia è il riutilizzo, il rovescio certamente fa molto pensare. Chi lascia vestiti nuovi o quasi al Charity, lo fa per un motivo: disfarsi della moda superata dell’anno prima e comprare quello che dettano, spesso, le riviste di settore per la stagione in corso. Produzione, moda, riviste, acquisti, uso, “rifiuti”, nuovi acquisti e nuova produzione: un vortice interminabile di consumi che alimenta se stesso. Un business infinito, insomma.
Papa Giovanni Paolo II lamentava il consumismo esasperato e, nella prospettiva della riduzione globale delle risorse, la produzione smodata di beni di consumo quali i vestiti sembra effettivamente stonare. Del resto, se è vero il motto che recitano gli ambientalisti per cui “Il miglior rifiuto è quello non prodotto”, sarebbe il caso di ripensare anche il settore dell’abbigliamento.
Il “volto umano” dei Charity cela quello disumano di produzioni superflue, delle fabbriche in Cina, India o in Bangladesh, come recitano ormai le targhette di vestiti che si possono comprare ovunque. Pensare al mondo che vogliamo lasciare ai posteri significa anche ripensare ai consumi odierni ed impostare una nuova società iniziando a cambiare i paradigmi di fondo.