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Ebola e la psicosi: un problema di comunicazione

C’è confusione sotto il cielo dell’Ebola e la confusione sta generando paure che esplodono in maniera irrazionale anche in Italia. E’ notizia di mercoledì i 7 giorni di non frequenza di una scuola materna di Fiumicino imposti a una bambina tornata da una vacanza in Uganda con la madre, perché i genitori dei suoi compagni di classe avevano timore di contagio ignorando che quel Paese non è stato toccato dall’epidemia.

Così come non sfugge l’apprensione generata dagli sbarchi dei profughi sulle coste italiane visti come portatori di malattie oltre che di problemi. Il rischio psicosi viene amplificato dalla  presenza nella società italiana di un diffuso sentimento razzista che negli ultimi mesi è andato rinforzandosi.

Quello della salute è sempre stato argomento “caldo” e come spesso accade alla base dell’insorgere degli isterismi, oltre a uscite scomposte della politica che alimenta la pancia del suo pubblico con dichiarazioni, che facendo leva sulla paura, rafforzano la propria narrazione, c’è la cattiva circolazione delle informazioni.

E’ un tasto dolente quello della comunicazione di crisi in ambito sanitario. Controllare le informazioni oggi è molto più complesso che in passato quando bastava apparire in televisione per rassicurare una vasta platea e dare voce alla versione ufficiale. Gestire tutti i flussi di informazione è un’operazione abnorme per la presenza di contesti web 2.0 dove tutti sono potenziali fonti e potenziali destinatari. Il risultato è che prima di riuscire a elaborare un messaggio efficace e supportato da dati, il pubblico si è già creato la sua notizia, parziale e raffazzonata, in barba alle comunicazioni della comunità medico-scientifica. Ne abbiamo parlato con il dottor Gaetano Grasso, esperto di comunicazione di crisi in ambito sanitario.

Il caso di Fiumicino è un chiaro segnale di psicosi già in stato abbastanza avanzato. Quanto dipende da un’errata strategia comunicativa del ministero della Salute e degli esperti, quanto dalla tendenza dei media a dare connotazione negativa agli articoli?

«I giornali fanno il loro mestiere: confezionano gli articoli per renderli notiziabili, ovvero in grado di interessare i lettori. E niente è più notiziabile della salute, soprattutto se, vero o falso che sia, è messa in pericolo. Diverso il discorso per il ministero della Salute e il mondo scientifico: è evidente che il problema è stato sottovalutato da un punto di vista comunicativo. Di Ebola si parla da settimane, se non mesi, ma non è stata predisposta nessuna azione di informazione che facesse chiarezza sui reali rischi per la popolazione. Quando si sono avuti i primi casi anche in Europa era ormai troppo tardi. “Prevenire è meglio che curare” non vale solo in sanità, ma anche in comunicazione».

L’epidemia internazionale è coincisa con una fase storica di particolare insofferenza in Italia verso gli immigrati. C’è anche una responsabilità della politica nella distorsione delle notizie?

«Sicuramente il dibattito politico, spesso caratterizzato da strumentalizzazioni volte a rinsaldare il consenso tra i propri sostenitori piuttosto che a informare i cittadini, ha contribuito a creare un corto circuito comunicativo. Soprattutto in assenza di una voce autorevole e istituzionale che facesse chiarezza sullo stato dell’epidemia prima ancora che arrivasse in Europa, cioè dietro la porta di casa».

Cosa si dovrebbe fare per evitare altre risposte irrazionali come quella di Fiumicino?

«Dire agli italiani, con onestà ma senza allarmismi, quali sono i rischi reali cui sono esposti e i comportamenti da tenere per stare sicuri.  Possibilmente senza ritirare fuori Topo Gigio, come fu fatto per l’epidemia di H1N1. Andrebbero poi evitati episodi come quelli riportati da alcune trasmissioni tv che parlano di ospedali, ad oggi, impreparati a gestire un’eventuale paziente colpito da Ebola. La psicosi nasce quando non si conosce il “nemico” e ci si sente indifesi davanti ad esso».

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