Cultura

Martone: «A Napoli c’è una strana passione a discutere sulla rappresentazione che se ne fa di essa»

È nelle sale dal 16 ottobre e sta registrando un grande successo di pubblico l’ultima pellicola del regista napoletano Mario Martone, “Il Giovane favoloso”, dedicata a Giacomo Leopardi. Un film in cui emerge il poeta di Recanati in tutta la sua voglia di vivere grazie a un superlativo Elio Germano che riesce a restituire un Leopardi più fedele all’originale di quanto abbiano fatto ore di lezioni di letteratura in tante classi italiane. Un Leopardi che combatte, e se ne libera, l’etichetta di pessimista, disperato e depresso. Nel poeta marchigiano il dolore si trasforma in vita e la malinconia altro non è che desiderio di bellezza e di amore, quella forza in grado di smuovere tutto.

«Avevo fiducia che questo film potesse trovare un suo pubblico, una fiducia doppia: nel film e nel pubblico ma che veniva da una precedente esperienza fatta qualche anno fa con un altro film ambientato nel Risorgimento, “Noi credevamo”, dove ad esempio incontrammo il favore degli spettatori e della critica anche grazie alla scelta coraggiosa di utilizzare la lingua del tempo – ha spiegato Martone ospite ieri sera a Lioni, in Irpinia, del Parco Letterario De Sanctis assieme alla moglie e scrittrice Ippolita Di Maio – La risposta del pubblico dimostra che l’Italia ama Leopardi e lo sente come qualcosa di suo, un patrimonio di tutti, e non potrebbe essere altrimenti perché senza cultura noi italiani non siamo nulla. Leopardi era difficile da capire per gli uomini del suo tempo. Mazzini ad esempio lo detestava perché il poeta di Recanati si oppone al progressismo. In realtà lui riusciva a vedere quello che di lì a poco le ideologie avrebbero prodotto, a partire da capitalismo, comunismo e totalitarismo. Leopardi già parlava a noi».

Il film si compone di tre macro scene: la prima ambientata nel paese marchigiano che diede i natali al poeta e che Martone ha intitolato “Recanati entro dipinta gabbia” perché rappresenta la prima fase della vita di Leopardi, in cui è forte il desiderio di fuga dal borgo natio; la seconda di scena a Firenze, sintetizzabile con “Il pensiero dominante”, per la difficoltà del poeta a relazionarsi e far accettare la sua visione del mondo ai letterati e politici del tempo. E infine una terza parte (“Il filosofo indiano”) in cui tutto viene messo continuamente in discussione e che ha come co-protagonista la città di Napoli.

«Noi abbiamo raccontato Napoli così come l’ha raccontata Leopardi nei suoi scritti, una città dove si può “vivere a caso” e dominata dalla natura. Una città con una grande luce, ma pure tenebre e vita sotterranea e notturna – ha continuato il regista – Del resto il poeta amava le figure umili in cui riconosceva i valori dell’umanità e della fratellanza, ma la sua Napoli è anche la città dei “pulcinelli e dei baroni fottuti”. Ha fatto discutere molto a Napoli questo film perché, caso unico in Italia, in quella città c’è una strana passione a discutere sulla rappresentazione che se ne fa di essa facendo passare tutto il resto in secondo piano. Io nei miei film ho raccontato finora quattro diverse Napoli e tutte hanno una loro autenticità. Anche la riabilitazione della figura di Antonio Ranieri, amico di Leopardi, è stata tra le cose che hanno fatto arrabbiare i napoletani, ma quella tra Ranieri e Leopardi fu una amicizia amorosa reciproca, erano una sorta di coppia di fatto e il giovane napoletano, esule e patriota ma anche fanfarone, dedicò dieci anni della sua vita all’amico poeta. Inoltre, se oggi tutte le sudate carte di Leopardi si trovano in una biblioteca pubblica a Napoli lo dobbiamo a lui».

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