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L’instabilità dell’Africa: Il caso del Burkina Faso

Blaise Compaoré è finito. Politicamente parlando, s’intende. Questo sembra di capire dagli avvenimenti delle ultime ore in Burkina Faso, la repubblica dell’Africa Occidentale dove le sollevazioni popolari hanno portato alle dimissioni del presidente golpista. Paradossalmente, è stato proprio il tentativo di prolungare il suo dominio sul Paese a costargli la carica: voleva mettere mano all’articolo 37 della Costituzione che limita il numero dei mandati per potersi ricandidare ancora una volta. Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza nelle principali città per palesare il loro dissenso contro questa riforma costituzionale, un milione, secondo l’opposizione, soltanto nella capitale Ouagadougou. Un comunicato dello stesso Compaoré dichiara sciolto il governo e annuncia un periodo di transizione della durata di 90 giorni, che dovrà condurre a libere elezioni. A prendere le redini della situazione e porre fine al caos ci ha pensato l’esercito, che già alla vigilia del comunicato ufficiale si era preso la briga di proclamare un esecutivo di transizione di dodici mesi. Pare che per l’ex colonia francese si sia aperta una nuova era politica guidata dai militari, con il colonnello Issac Zida che, di fatto, è diventato il leader provvisorio. Intanto dall’opposizione c’è chi, come Bènèwendè Sankara, presidente dell’Unione per la Rinascita, grida al colpo di stato.

Allontaniamo per un attimo la lente dal Burkina Faso, per allargare lo sguardo all’intero continente. Se la caduta di Compaoré rappresenta una vera e propria rivoluzione locale, dopo 27 anni di governo ininterrotto, le modalità degli avvenimenti di questi giorni suonano come un leitmotiv che ritorna perenne di anno in anno. Non è un caso se c’è chi parla di un’altra Primavera araba. Golpe, protesta, dominio militare, sono tutte cose che fanno rima con l’Africa e con la sua storia.

La verità, è che l’Africa una storia non ce l’ha, una storia perlomeno che sia tutta sua e degli africani. A guardare indietro ai secoli trascorsi, ci si trova la storia degli europei. Soltanto un secolo fa, il continente nero non era più di una colonia, e da cinquant’anni scarsi quei Paesi disegnati sulla cartina con il righello dell’imperialismo hanno iniziato a muovere da soli i primi passi. Ma cinque decenni sono troppo pochi per poter trovare la propria strada in mezzo a tanto marasma di deposizioni continue, rivolte, instabilità politica ed economica. Troppo pochi anche per considerarsi completamente slegati dall’ingerenza e dagli affari europei. Per certi versi, l’Europa non ha mai smesso di essere proiettata sull’Africa. Si vedano i rapporti tra l’Unione Europea e l’Africana, o le numerosissime basi militari francesi installate nel Corno d’Africa. Ci sono Paesi che stentano a camminare con le proprie gambe lungo la strada dell’autonomia. L’appello del ministro libico Salah Bashir Marghani agli Italiani, affinché sostengano i loro amici e vicini, appena lo scorso settembre, ricorda gli stessi italiani che chiedevano di volta in volta a uno Stato vicino di essere aiutati con tutte le forze per ritrovare libertà ed equilibrio.

Ci sono Paesi, poi, in cui l’indipendenza non ha portato alla democrazia. La conquista della libertà dallo straniero spesso e volentieri si è esaurita nella instaurazione di un’altra tirannia. Morta una dittatura, se n’è fatta un’altra. Come se tutto quello che avessero imparato gli africani in secoli e secoli di sottomissione, fosse che il potere va preso con la forza. Da Ben Ali con il colpo di stato in Tunisia nell’87 al golpe militare del colonnello Yahya A.J.J. Jammeh in Gambia nel 1994, agli altri rovesciamenti attuati dalle forze armate in Mauritania nel 2008, o nel Niger 2010. E mentre da un capo all’altro regimi e monarchie cadono continuamente, intere regioni faticano a trovare la propria identità, come dimostrano le recenti scissioni del Sudan nel 2011 e del Mali appena due anni fa.

Difficile prevedere lo sbocco della situazione in Burkina Faso, e se il dominio dell’esercito diventerà una realtà di fatto, o lascerà presto il posto ai candidati liberamente eletti. Certo è che non sarà un colpo di stato, o un’elezione, a portare la democrazia vera e propria nel Paese. La debolezza africana non è mica una colpa, ed è più che chiaro che le sue sfide deve affrontarle da sola, ma l’obiettivo non è esattamente dietro l’angolo.

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