Ultima giornata dei Dialoghi sulle Mafie, la serie di dibattiti su cosa sono e fin dove arrivano le organizzazioni malavitose oggi, dai primi passi storicamente documentati fino ai giorni nostri, partendo dall’Italia per arrivare ad ogni angolo del mondo. Perché si sa che, oggigiorno, parlare di camorra, di mafia, di ‘Ndrangheta non significa più parlare soltanto dell’Italia e del Sud. E si parte proprio dal nostro Mezzogiorno, con la lente calata sulla Sicilia e sul pool che negli anni ottanta rivoluzionò la lotta alla mafia. Le parole di Giuseppe Ayala, ex magistrato e politico, protagonista del primo intervento della giornata e, insieme a Ruggero Cappuccio e Tano Grasso, di questa prima parte di dialogo, ci riportano proprio indietro a quel periodo, agli anni di Rocco Chinnici, che ebbe l’idea e contribuì alla creazione di un pool antimafia, guidato, dopo la sua morte, da un altro eroe della lotta alla criminalità, Antonino Caponnetto. <<L’antimafia nasce in contemporanea alla nascita del fenomeno mafioso – dice Ayala in apertura del discorso – ma è negli anni ’80 che si ebbe il salto di qualità, perché per la prima volta lo Stato e le istituzioni affrontano il problema in maniera innovativa. Per la prima volta, cioè, ci si dota di quello strumento che era il pool di magistrati, che consentiva finalmente un intervento efficace e concreto, di combattere la mafia in maniera strategica>>. È soltanto negli anni Ottanta, inoltre, che la mafia compare per la prima volta nella legislazione italiana, che viene inquadrata a dovere nel quadro delle leggi per essere più adeguatamente combattuta. Secondo Giuseppe Ayala, che fu PM nel Maxiprocesso di Palermo istituito da Giovanni Falcone, per affrontare con successo la mafia oggi bisognerebbe guardare non soltanto nei meandri della politica, ma anche in quelli della burocrazia: <<La lotta alla mafia non può essere soltanto giudiziaria. È necessario spezzare una volta per tutte quei pezzi di Cosa Nostra che si trovano nelle stanze delle istituzioni>>.
Da qui, si prosegue poi con Nicola Gratteri, Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, con Enzo Segre Malagoli, professore di Antropologia della Universidad Macional Autonoma di Città del Messico, e con Luciano Brancaccio, ricercatore in Sociologia presso la Federico II di Napoli. L’obiettivo è allargare lo sguardo dal nostro Paese al resto del mondo per seguire le rotte delle organizzazioni mafiose, in particolare per analizzare la ‘Ndrangheta, la criminalità messicana, e le relazioni intercontinentali basate sul narcotraffico. È Nicola Gratteri a fare un passo indietro per risalire alle origini della ‘Ndrangheta, la meno nota, in Italia, delle tre associazioni mafiose, partendo dalle sue origini, da quella Picciotteria che affonda le sue radici nella storia più antica della Calabria, agli anni Trenta dell’Ottocento, quando troviamo le prime documentazioni di quella che oggi viene chiamata ‘Ndrangheta, fino all’articolo di Corrado Alvaro apparso sul Corriere della Sera nel 1955, che ebbe il merito di consegnare questa parola al linguaggio comune. Poi, la ‘Ndrangheta oggi, e la sua internazionalizzazione che l’ha portata ad arrivare in mezzo mondo. Persino nel Sud America, dove è potentissima, e nel Messico, dove si allea con le organizzazioni malavitose locali perpetrando indicibili violenze sulla frangia più sfortunata della popolazione e sostituendosi, di fatto, ad uno Stato assente. «Se in Italia siamo abituati a pensare alle mafie come ad una sorta di Antistato – interviene Brancaccio – in Messico invece i gruppi mafiosi improntano su di sé l’immagine dello Stato, di uno Stato che non dà risposte». La ‘Ndrangheta ha conquistato quasi completamente il monopolio del narcotraffico in Europa, da quando si è infiltrata nei Paesi d’oltreoceano, dagli Stati Uniti all’Argentina, facendo convergere migliaia e migliaia di tonnellate di cocaina al sud, in Brasile, Perù, Uruguay, e da qui al nostro continente.
L’intervento repressivo, da solo, ormai non può più bastare. È necessario che le istituzioni internazionali, tra cui anche l’ONU, sottolinea Gratteri, scendano tra la povera gente, si sporchino del fango in cui vivono e li aiutino a risollevarsi, per evitare di cadere ancora nella rete delle mafie di tutto il mondo. Ma è necessario pure, per ricordare l’intervento di Ruggero Cappuccio, riprendere la lezione di Falcone e Borsellino, ai quali, tra i tanti meriti, va riconosciuto anche quello di aver compreso che un passo obbligato è appropriarsi del linguaggio, anche gestuale, della mafia, per potersi sintonizzare sulle frequenze della sua comunicazione. Soltanto arrivando a comprendere le ragioni che stanno dall’altra parte, e istituendo dialoghi come questi, che aiutino a comprendere, oltre che a punire, si può condurre questa lotta con coraggio e buoni risultati.