Dopo mesi di scontri fisici e dialettici, il Jobs Act è legge. L’Aula del Senato nella tarda serata di ieri ha detto 166 volte sì contro 112 no e un solo astenuto dando il via libera definitivo alla delega sul lavoro sulla quale il Governo aveva posto la fiducia. «Il Jobs Act diventa legge. L’Italia cambia davvero. Questa è la volta buona. E noi andiamo avanti». Il commento a caldo di Matteo Renzi. Soddisfatto anche il ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Ora si dovrà procedere “speditamente” ai decreti attuativi, partendo da quelli per l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che vogliamo rendere operativo da gennaio».
Ma cosa era successo nel pomeriggio? Cortei in diverse città italiane, manifestanti (Cobas, precari e studenti), non molti, davanti a Palazzo Madama e nel centro di Roma, con cariche “contenitive” delle forze dell’ordine e almeno tre feriti, due studenti e un precario. Ora toccherà agli investigatori setacciare i video registrati dalla polizia scientifica e dalle telecamere apposte sulle uniformi degli agenti del Reparto Mobile per identificare i protagonisti dei disordini. Fermati una decina di studenti, uno dei quali denunciati, provenienti dall’università e trovati in possesso di 30 petardi e 26 fumogeni. Sequestrate varie mazze di legno e due paletti dissuasori di sosta, in ghisa, sradicati per forzare lo sbarramento messo in atto dalla Guardia di Finanza per evitare che i manifestanti raggiungessero il Senato.
E adesso? La fretta del Governo di arrivare all’approvazione del Jobs Act entro la fine dell’anno si è tradotta nella doppia fiducia apposta sia alla Camera che al Senato. Nessun freno dall’autunno di lotta dei sindacati, anche ieri in piazza (la Cisl con gli statali) e avviati verso lo sciopero generale del 12 dicembre che partirà, proprio per la mossa del Governo, già azzoppato. Renzi incassa l’ennesima fiducia, segno di una maggioranza e di un PD che nonostante i distinguo reggono. La sinistra democrat, tutt’altro che compatta, si scopre ancora troppo minoritaria all’interno del contenitore-partito sempre più tutt’uno con il suo leader, si piega alla volontà del segretario-Premier e prova a spostare già da queste ora la battaglia sul fronte della legge elettorale. Intanto, mettendo da parte le acrobazie lessicali, dall’approvazione del Jobs Act viene fuori lo smantellamento definitivo del totem-tabù dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoro, già iniziata dalla Riforma Fornero. Non era il fulcro della legge delega e non è l’unica novità di questa riforma del Lavoro, ma è quello di cui tutti per settimane hanno parlato. E forse una ragione c’è. Toccare l’articolo 18, come più volte detto, significava mettere fine – a un rapporto privilegiato tra la sinistra italiana e i lavoratori, tra quella sinistra che stava sempre e comunque con gli operai e contro i padroni. Una sinistra che però da tempo non esiste più, così come si è profondamente trasformato il mercato del lavoro in cui si collocavano quel tipo di divisioni. Certo, il ridimensionamento di un diritto non può mai essere considerato un passo di civiltà, ma i troppi anni di immobilismo del nostro Paese ci dicono che è arrivato il tempo in cui anche le organizzazioni sindacali, Cgil in testa, e i partiti devono mettere in discussione le loro certezze e comprendere che quel mondo non solo è cambiato, ma non si sente al momento neppure rappresentato. Non da Renzi, non da questi sindacati.