Entra in vigore oggi, a tre anni dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale Ue, il regolamento comunitario 1169/11 che armonizza le legislazioni dei singoli Paesi dell’Unione Europea in materia di etichettatura degli alimenti. Archiviata così, dopo 35 anni, la vecchia direttiva sulle etichette alimentari, la 79/11/CEE.
Molte interessanti novità nel nuovo testo che punta a una maggiore trasparenza delle informazioni per rafforzare la tutela della salute dei consumatori senza creare ostacoli alla libera circolazione delle merci. Tra queste sicuramente, l’obbligo di riportare la data di scadenza su ogni singola porzione preconfezionata e non più solo sulla confezione esterna; e quello di indicare con evidenza nella lista degli ingredienti la presenza di sostanze allergizzanti o che procurano intolleranze. Lo stesso dovranno fare anche i ristoranti e tutte le attività in cui si somministrano alimenti e bevande utilizzando adeguati supporti. Un passo in avanti per la sicurezza alimentare per oltre quattro milioni di italiani adulti e per il 7%-8% dei bambini che soffrono di allergie.
Altra importante novità è quella relativa alla regolamentazione, per la prima volta, della vendita di prodotti alimentari sul web: i consumatori per legge dovranno avere a disposizione tutte le informazioni obbligatorie prima dell’acquisto, con eccezione della data di scadenza. Così come per la prima volta in assoluto il regolamento comunitario fissa la dimensione minima dei caratteri tipografici delle etichette (1,2 mm o 0,9 mm per le confezioni più piccole) venendo incontro alle difficoltà di lettura della popolazione più avanti con l’età.
Fin qui i contenuti del regolamento appaiono orientati al buon senso. I conti per l’industria agroalimentare italiana iniziano a non tornare quando si scende nel dettaglio relativamente a quelle informazioni che danno una connotazione territoriale, e quindi specificità e tracciabilità, ai prodotti acquistati. Il 1169/11 prevede infatti che sulle confezioni venga riportato obbligatoriamente l’indirizzo, completo di numero civico, della sede legale del produttore, e l’origine del prodotto in modo da informare il consumatore sul luogo da cui proviene la materia prima. Ciò su cui l’Unione non è intervenuta è l’indicazione dello stabilimento di produzione e confezionamento, prima obbligatoria in Italia per effetto della legge 109/92, che diventa facoltativa in seguito all’entrata in vigore del regolamento comunitario.
Un colpo basso al Made in Italy e in particolar modo alla produzione agroalimentare che vedrebbe venir meno un freno al fenomeno del cosiddetto Italian sounding, cioè la contraffazione e falsificazione degli alimenti Made in Italy che, secondo i dati del rapporto “Agromafie” elaborato da Coldiretti ed Eurispes, costa al nostro Paese 300mila posti di lavoro per un giro di affari di 60 miliardi di euro: quasi il doppio dell’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari.
Sul punto sia il M5S con una proposta di legge, a prima firma Paolo Parentela, che il deputato del PD Michele Anzaldi, stanno pressando il governo Renzi affinché corregga la norma che apre la strada ai prodotti taroccati anche in Italia, problema che finora si registrava solo all’estero dove i distributori spacciavano per Made in Italy alimenti prodotti al di fuori dei confini del Bel Paese. A tutto vantaggio delle private label, cioè quei marchi che coincidono con il nome del distributore e che spesso delocalizzano, e a scapito della qualità.