Nel deserto del Negev, nella parte più meridionale dello stato di Israele, sorge un centro di detenzione per immigrati che ha fatto parecchio discutere (perlomeno gli Israeliani). Al suo interno, circa 2.300 migranti che oltrepassavano i confini dei rispettivi Paesi di nascita alla ricerca di un nuovo mondo, fosse pure nel deserto, dove tradizionalmente ci si immagina di trovare il nulla, vaste lande desolate e vuote per chilometri e chilometri. E invece lì qualcosa l’hanno trovato, anche se con ogni probabilità non era quello che si aspettavano.
Tutto è cominciato nella seconda metà dello scorso decennio, a partire all’incirca dal 2006, quando dall’Africa subsahariana ebbe inizio un incessante e spaventoso flusso migratorio proveniente in misura maggiore dal Sudan e dall’Eritrea. Dalla povertà, dalle guerre civili, dal tristemente noto Darfur, dalle malattie e da una vera e propria crisi umanitaria dilagante, centinaia di uomini sono scappati attraversando a piedi i confini dell’Egitto pur di sfuggire alle torture e alla miseria, nella speranza di trovare altrove i diritti civili che la loro patria non è riuscita a garantirgli. Ad Israele, però, e al suo Primo Ministro Benjamin Netanyahu, non andava di accollarsi i problemi di popolazione straniere, che diventavano sempre più numerose nella loro terra. Per evitare il dilagare dell’immigrazione africana, e anche per allontanare i clandestini dai quartieri cittadini, nacque il Centro di Holot, non tanto distante da Tel Aviv, che in realtà, a dispetto del nome, è più una prigione che un vero centro di accoglienza. Gli “ospiti” erano teoricamente liberi di andare dove volevano, ma con l’obbligo di presentarsi al Centro tre volte al giorno; praticamente, allontanarsi diventava impossibile. Senza contare che un emendamento rendeva legale la detenzione fino a dodici mesi per i clandestini ritrovati in Israele. I giudici della Corte Suprema israeliana hanno ordinato, appena lo scorso settembre, la chiusura di Holot entro 90 giorni dalla sentenza, e non soltanto perché i clandestini non siano più sottoposti a coercizioni e detenzioni di alcun tipo, ma anche a causa delle condizioni di disumanità che hanno scatenato indignazioni e proteste negli ultimi mesi. Sappiamo che i rifugiati svolgevano lavori in cambio di uno striminzito stipendio, soffrivano la fame e vivevano in condizioni di sovraffollamento, tanto da suscitare l’attenzione di Amnesty International e di Human Rights Watch.
Molti sono stati indotti a partire, a ritornare da dove sono venuti: il governo d’Israele s’è fatto venire pure l’idea di sovvenzionare gli immigrati con assegni che avrebbero potuto usare per tornare a casa. Non importa che fossero fuggiti proprio da quella casa, e che i soldi a volte non contano niente di fronte alla libertà, alla salute, alla vita stessa. Ciononostante, per quanto possa stupire, in molti sono partiti davvero, forse perché costretti, o forse hanno accettato per la disperazione. Non gli eritrei, però, dato che il governo del loro Paese non è incline a tollerare chi fugge, e per coloro che vengono catturati mentre cercano di varcare i confini la punizione può essere addirittura la morte.
Il fatto è che, alla fine, il governo ha deciso di ignorare la decisione della Corte. In un discorso tenuto agli inizi del mese di Dicembre, la politica Miri Regev, colei che aveva definito l’immigrazione sudanese come “un cancro nel corpo” dello Stato israeliano, ha detto che il Centro di Holot non chiuderà, ma qualcosa cambierà ugualmente. I prigionieri potranno essere trattenuti per un periodo di tempo limitato e andranno incontro a un trattamento migliore. Il problema, qui, non è chiudere o non chiudere il centro. La questione è cambiare politica in materia d’immigrazione, che equivale un po’ a cambiare mentalità.
Pare che lo Stato di Israele si sia dimenticato di aver aderito alla Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati e, quel che è peggio, s’è dimenticata pure della sua storia. Sciogliere un dilemma di così grandi dimensioni e rilevanza non dev’essere facile, e non è neanche detto che debba occuparsene interamente il popolo israeliano. Una cosa è evidente, però, e cioè che qualche rete metallica e qualche sbarra possono arginare un problema per qualche tempo, ma non risolverlo.