Sono circa 11mila le società partecipate in Italia, di cui 1500 inattive e altre 2mila senza addetti. E’ quanto rileva l’Istat che per la prima volta ha analizzato le partecipate pubbliche, mentre in precedenza i censimenti riguardavano le sole controllate.
Una scelta in sintonia con il sentiment del Paese che negli ultimi mesi ha visto crescere l’attenzione e la polemica attorno a esse, diventate capro espiatorio degli sprechi del settore pubblico e oggetto di invettive da parte di semplici cittadini e politica, con in testa il premier Renzi che ad aprile e poi a settembre ha annunciato rivoluzioni.
Secondo i dati dell’Istituto di statistica quindi al 2012 in Italia sono 11.024 le partecipate pubbliche per un totale di 977.792 addetti (124 in media): il 25,6% di esse è partecipato al 100% da soggetti pubblici; il 29,1% rientra in una forchetta compresa tra il 50% e il 99,9%; il 27,1% risulta partecipato per una quota inferiore al 20%. Delle oltre 11mila però solo 7.685 (il 69,7% del totale) risultano attive: le restanti, per una metà non sono attive, mentre le altre si dividono tra unità residuali e al di fuori del campo di osservazione del registro Asia imprese. Tra quelle attive, sono 1.896 le partecipate pubbliche con zero addetti. La stima Istat, si spiega nella nota metodologica, si fonda su dati Consob, Consoc, Mef, Corte dei Conti, Camere di Commercio e informazioni ricavate da bilanci civilistici e consolidati delle società di capitale.
Il settore con il maggior numero di imprese è quello delle attività professionali, scientifiche e tecniche (13,4% di imprese e 2,8% di addetti), mentre quello che impiega il maggior numero di addetti è il trasporto e magazzinaggio (37% di addetti e il 10,3% di imprese). Inoltre, circa il 24% delle imprese ha sede in Centro Italia, con una dimensione media di 278 addetti, con il Lazio a fare la voce grossa raccogliendo il 9,7% del totale delle imprese e oltre il 45% degli addetti. Il maggior numero di partecipate però si trova nel Nord-ovest (27,7%) di cui più della metà in Lombardia.
Un universo variegato che dando ai calcoli del commissario per la spending review Carlo Cottarelli genera 1,2 miliardi di perdite l’anno per lo Stato e che, se riformato, poteva produrre risparmi per almeno due miliardi. La riforma, inizialmente prevista nello Sblocca Italia, è stata affidata alla Legge di Stabilità, ma i correttivi introdotti appaiono non soddisfacenti. Ad esempio, si stabilisce che a partire dal prossimo 1 gennaio e entro il 31 dicembre 2015 debba svolgersi il processo di riduzione delle società, secondo alcuni criteri come “eliminazione delle società e delle partecipazioni societarie non indispensabili al perseguimento delle proprie finalità istituzionali” o “che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre partecipate o da enti pubblici strumentali”, la soppressione delle società “che risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti” e la “riorganizzazione degli organi amministrativi e di controllo e delle strutture aziendali” e la “riduzione delle relative remunerazioni”. I risorse liberate dalle quote che gli enti locali cederanno non saranno soggette al vincolo del Patto di stabilità e saranno disponibili per investimenti, mentre non si introducono meccanismi premiali o incentivi per i soggetti che invece di vendere, vorranno fondere o aggregare le partecipate. Gli scettici fanno notare anche la mancanza di criteri oggettivi: secondo Cottarelli infatti andavano chiuse le società senza dipendenti, quelle con fatturato inferiore a 100mila euro e bisognava prevedere un sistema di sanzioni per l’ente partecipante e gli amministratori inadempienti.