Quarantuno suicidi nel 2014, ventinove nel 2013 e trentatre nel 2012, nella sola provincia di Avellino. Cifre record che confermano un trend emerso già da alcuni anni e collocano l’Irpinia al primo posto nel Mezzogiorno per incidenza dei casi sul totale della popolazione. Un’emergenza sociale che mette tutti, famiglie e istituzioni, davanti a una realtà che non è più quella di un’oasi felice e che costringe a interrogarsi sulle cause e sulle possibili azioni da mettere in campo per arginarla. Ogni suicidio, sosteneva Durkheim, è un atto privato determinato socialmente e sul quale pesa la responsabilità della collettività. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Pina Aurilia, psicologa e psicoterapeuta del Consorzio dei Servizi Sociali Alta Irpinia, ente che raggruppa ben 25 Comuni dell’area est della provincia di Avellino.
Dott.ssa Aurilia, il 2014 irpino si chiude con il dato negativo di 41 suicidi, quasi uno ogni diecimila abitanti. Quali le possibili cause di questo fenomeno, che miete vittime di qualsiasi età e condizione professionale?
«Alla base del suicidio c’è sempre un forte conflitto interiore tra la sfera dei desideri e delle aspettative personali e le richieste che arrivano dall’esterno sotto forma di obblighi, doveri e frustrazioni, per cui non si vive più bene con se stessi e non si riesce più a trovare un punto di equilibrio. Tre le possibili chiavi di lettura, due delle quali fortemente correlate alle dinamiche di gruppo: sociologica, intesa come isolamento reale o percepito dal soggetto, dovuto a solitudine, allontanamento dai cari, separazione o decesso altrui; psicologica, per cui l’aggressività subita dagli altri si riversa per protesta su se stessi. Ad esempio, la perdita del posto di lavoro può essere vissuta come un’ingiustizia o un accanimento del capo; e rientra in questa tipologia di cause la conflittualità familiare. Psichiatrica, per cui il suicidio è l’esito di patologie come la depressione e l’ansia, il cosiddetto male di vivere».
Ma perché in Irpinia si suicida più gente che altrove?
«Non è semplice rispondere a questa domanda perché intervengono diversi fattori e perché ogni atto suicida è unico ed è sbagliato generalizzare. Non è solo un discorso di crisi economica. Di sicuro influisce la geografia del territorio che è molto esteso e che presenta diverse aree con bassa densità demografica per cui casi di solitudine, di assenza di vita sociale e desolazione sono più frequenti che altrove. Così come incide la psicologia dell’irpino, che è un po’ lupo, cioè schivo, riservato, diffidente e quindi meno propenso a chiedere aiuto. Sono rari ad esempio i casi di individui che si rivolgono a noi per un supporto e spesso vale la regola del “chi lo dice, non lo fa”».
C’è anche una tendenza all’emulazione?
«C’è sicuramente una tendenza all’emulazione. Purtroppo chi compie questi gesti arriva a pensare che, se altri hanno risolto così i loro problemi, probabilmente il suicidio è l’unica soluzione. Trovano una giustificazione, che chiaramente non arriva dalla collettività ma è soggettiva, al togliersi la vita in quanto unica via d’uscita. In questo c’è una responsabilità della società che si dimostra fragile e finisce, attraverso la narrazione degli episodi fatta anche dai media, per amplificare il fenomeno».
Quali attività mettete in campo come Consorzi dei Servizi Sociali per supportare soggetti che hanno tentato il suicidio o le famiglie?
«Per quanto riguarda il supporto alle famiglie di vittime di suicidio, generalmente sono le Forze dell’ordine a chiedere il nostro intervento psicologico: spesso i familiari si chiudono in se stessi a causa del forte senso di colpa e raccontano di non essersi accorti di nulla e questo è segnale di scarsa attenzione rivolta ai propri congiunti. Poi come Piani di Zona ci occupiamo di servizi intermedi, che affiancano quelli di salute mentale, e ci concentriamo innanzitutto sulla prevenzione, con azioni di sensibilizzazione, invitando gli individui che vivono un disagio e le loro famiglie a rivolgersi a professionisti che possono aiutarli a riattivare le risorse interiori che ognuno di noi possiede. Anche in questi casi, è importante lavorare sui gruppi familiari e capire cosa non funziona al loro interno».
Si potrebbe fare di più?
«Sicuramente. Si potrebbe e soprattutto si dovrebbe fare di più, a livello di prevenzione a 360 gradi. Il problema è che mancano i fondi, e questo dipende dalla volontà della politica e delle istituzioni; o che, quando i fondi arrivano, non vengono utilizzati nel migliore dei modi. Quello che spesso manca ai progetti è la capillarità nell’azione informativa dei cittadini che finisce per rendere inefficaci i servizi messi in campo, e la continuità».