Per ben due volte negli ultimi trent’anni l’Italia ha detto “NO” all’energia nucleare: la prima con il referendum del 1987 e la seconda con quello del 2011. In questi 24 anni però il nostro Paese non ha smesso di produrre scorie contenenti materiale radioattivo attraverso i processi industriali di circa 350 aziende distribuite lungo tutto lo Stivale, ma pure negli ospedali e nei laboratori di ricerca; scorie che vanno a sommarsi a quelle presenti nelle vecchie centrali, localizzate soprattutto nel nord Italia. Inoltre, tra il 2019 e il 2025 i rifiuti radioattivi ad alta intensità o di cosiddetta “terza categoria”, che abbiamo inviato in Francia e Gran Bretagna per essere “riprocessati”, in base ad accordi del 2006 dovranno rientrare nel nostro Paese. Quanto alle scorie nucleari di bassa e media intensità rimaste qui, circa 90mila metri cubi, solo il 60% proviene dallo smantellamento degli impianti nucleari. Il restante 40% ha altra origine.
Per questa tipologia di rifiuto l’Italia ha a disposizione sistemi di conservazione al di sotto degli standard europei e rischia di incappare in procedure di infrazione per la mancata realizzazione del Deposito unico nazionale delle scorie nucleari richiesto dall’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Iaea). Qualcosa inizia però a muoversi, seppure non nel momento storico migliore vista l’attenzione altissima, forse persino eccessiva, che c’è attualmente nel Paese nei confronti di tutto ciò che riguarda l’ambiente.
A inizio gennaio infatti la Sogin ha consegnato all’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) la mappa delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito – stilata in base a linee guida contenute in un documento dello scorso giugno – e su cui vige estrema segretezza. L’agenzia ministeriale avrà due mesi per verificare la correttezza delle proposte e nei successivi trenta giorni i ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente dovranno rilasciare il nullaosta.
Il deposito consentirà la conservazione per i prossimi 2-300 anni di circa 75 mila metri cubi di rifiuti di bassa e media attività e lo stoccaggio temporaneo di circa 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta attività. Sarà pure realizzato un Parco tecnologico, cioè un centro di ricerca aperto a collaborazioni internazionali, dove svolgere attività nel campo della gestione dei rifiuti radioattivi, dello sviluppo sostenibile in accordo con il territorio interessato e del decommissioning, settore in cui operano in Italia 250 aziende per un totale di circa mille addetti. La Sogin, che è una società pubblica, è tra i leader mondiali del comparto con un elevato know how maturato da quando il referendum indetto dopo l’incidente di Chernobyl decise lo smantellamento dei reattori italiani. Secondo le stime della società, il progetto richiede un investimento complessivo di circa 1,5 miliardi di euro, circa 1.500 occupati l’anno per quattro anni e 700 posti di lavoro per la gestione a regime.
Il documento che ha portato alla redazione della mappa esclude tutta una serie di possibili località e fissa dei paletti abbastanza stringenti per la scelta del sito, che non dovrà ricadere in aree: vulcaniche, attive o dormienti, da quella etnea a quella vesuviana passando le isole minori; in aree sismiche o interessate da fenomeni di faglia, da frane e inondazioni, in fasce fluviali o in depositi alluvionali preistorici; al di sopra di un’altitudine di 700 metri per la complessità dell’orografia e le piogge elevate, o con pendenze superiori al 10%; ma anche a non meno di 5 chilometri dalla costa; in zone carsiche o vicine a sorgenti, a Parchi nazionali o luoghi di interesse naturalistico. Esclusi pure siti vicini a centri abitati, a meno di un chilometro da autostrade, strade statali o ferrovie; nei pressi di attività industriali, dighe, aeroporti, poligoni militari, o di zone di sfruttamento minerario, compresa la ricerca ed estrazione di gas e petrolio.
Restano pochi plausibili luoghi, tra Sardegna, Basilicata e Veneto, dove cresce l’agitazione e si registrano le prime prese di posizione della politica e degli ambientalisti. Renato Soru, segretario regionale del PD sardo, ha ad esempio già annunciato barricate contro l’eventuale scelta della Sardegna. La sindrome Nimby è in agguato e c’è da scommettere che pure le altre regioni e popolazioni finiranno per fare altrettanto. La normativa nazionale infatti prevede l’ascolto delle amministrazioni regionali e locali e un seminario organizzato dalla Sogin e dai ministeri coinvolti, e la possibilità di rivolgersi ai Tribunali amministrativi regionali contro eventuali violazioni di legge. I tempi per la realizzazione del deposito si preannunciano più lunghi del previsto e la soluzione complessa. A meno che qualche Comune non decida di sfruttare un’altra possibilità prevista dalla legge, quella dell’autocandidatura a ospitare il deposito.