La profonda e lacerante crisi che stiamo vivendo tutti in Europa e nel mondo cosiddetto avanzato, non ci da più tempo per agire senza riflettere. Ma non abbiamo nemmeno più tempo di pensare a lungo, in maniera isolata, come se avessimo le capacità di segnare il passo di una rinascita affidandoci ad intuizioni brillanti. I numeri della disoccupazione sono davvero drammatici. Siamo nel guado.
Il modello di sviluppo economico dell’Occidente che ha dominato con un pensiero unico, negli ultimi 30 anni, non regge più. L’era della globalizzazione, in cui siamo dentro da tempo, ed il colpo di coda dato dalla Grande crisi in atto, esplosa nel 2008 ed ancora in evoluzione, non permette più di utilizzare i vecchi paradigmi. Il Paese è allo sbando. I giovani, i più coraggiosi, fuggono altrove, cercando fortuna; gli adulti per lo più devono ridefinire la propria vita per aver perso il lavoro; la stragrande maggioranza degli anziani non riesce ad avere il necessario; mentre una piccola cerchia di essi ha un reddito alto a tal punto da potersi far carico di molti nuclei familiari. A proposito di questo, in Italia, i dieci più ricchi cumulano un patrimonio pari a quello posseduto dai 3 milioni di italiani più poveri. L’11% delle famiglie è in condizione di povertà relativa ed il 5% di povertà assoluta. Nonostante i molteplici benefici che abbiamo ricevuto come umanità della globalizzazione, stiamo assistendo ad un intollerabile aumento delle disuguaglianze.
Dall’altra parte del mondo milioni di profughi scappano dalla miseria, dalle guerre, dai disastri naturali, dalle persecuzioni politiche e religiose per rifugiarsi in Paesi più fortunati, fra i quali molti includono anche il Nostro. Il mondo non è più felice. Il progresso senza felicità, senza energia pura, non esiste.
Lo sforzo da compiere è proprio quello di uscire dai paradigmi del vecchio secolo sui temi dell’occupazione e del lavoro per costruire nuove categorie interpretative di comportamento ed azione. Abbiamo attraversato l’era post-industriale, e, che ci piaccia o no, almeno il 70% del lavoro in prospettiva, è di tipo intellettuale, immateriale e non più fisico. Affrontare il lavoro con categorie di fatto superate frena qualunque tipo di sviluppo. Il concetto di produttività introdotto da Taylor è nato con le fabbriche: ebbene oggi la produttività così intesa può essere ricercata solo nelle fabbriche, dove resiste il lavoro fisico, che è circa il 30% di quello totale. Ma non esiste a tutt’oggi un’unità di misura sostenibile e condivisa, di “questo lavoro”. Bisognerebbe spostare l’asse dalla quantità alla qualità. La qualità è direttamente proporzionata alla competenza, alla soddisfazione, alla motivazione: alla professionalità.
Una delle domande più appropriate da porsi oggi sul tema lavoro è: ha ancora senso considerare il tema occupazione solo (o quasi) in termini di domanda, e continuare a parlare di forme contrattuali (lavoro a tempo determinato, indeterminato, ecc.), o non è il caso di spingere verso il tipo e la qualità di offerta e considerare le varie forme di occupazione come fattori relativi alle capacità, alle competenze, alle attitudini “imprenditive” del soggetto. Per affrontare il nuovo occorrono più che mani paradigmi nuovi. Quello di cui abbiamo bisogno è favorire lo sviluppo di un pensiero nuovo: vanno valorizzate le eccellenze, le capacità individuali, le competenze, che sono in grado di assicurare l’employability, molto meglio di qualunque forma contrattuale. La disoccupazione, in questa visione, deve diventare un nuovo modo di essere occupato. In questa nuova visione del lavoro, ad esempio, si dovrebbe diminuire l’orario di lavoro ed incrementare finalmente il telelavoro, che non solo migliora la qualità della vita, ma diminuisce il traffico; l’ingolfamento delle strade; l’inquinamento e costituisce, se adottato in maniera sistemica, un grande passo verso la green economy. Per rendere tutto questo possibile, bisogna sapere quale futuro volere. Bisogna insistere su percorsi di formazione, di motivazione per ottenere quella spinta in avanti necessaria per saltare il guado.
I cambiamenti sociali sono lentissimi, ma la cosa che in questo momento, dal punto di vista sociologico, è più rilevante, è che siamo in una fase di disorientamento molto forte. La strada verso un progresso sostenibile conduce alla lotta verso gli sprechi, in tutte le forme in cui si manifestano. La crescita economica cui si sta lavorando dovrà essere abbinata ad una nuova difesa dell’ambiente, a nuove politiche per l’energia, per l’istruzione, la ricerca, la formazione. Tutti devono diventare consapevoli del fatto che un mondo che distrugge le sue risorse è un mondo che non ha futuro. Dietro la crisi dei rappresentanti politici, dunque, c’è un’inadempienza degli intellettuali, pronti ad arraffare i vantaggi da sinistra, ma altrettanto pronti a dissociarsene quando più non conviene. Tutti gli apparati partitici e sindacali sono sempre più deboli in tutti i Paesi democratici, i leader sono per lo più funzionari di media statura culturale, privi di carisma. Le cosiddette classi sociali sono confuse. Senza istituzioni politiche forti, la società manca di mezzi per definire e realizzare i suoi interessi comuni. La capacità di creare istituzioni, politiche è la capacità di creare interessi generali e condivisi. Istituzioni politiche deboli costringono la società alla lotta di tutti contro tutti. La capacità di creare istituzioni politiche forti coincide con la capacità di creare interessi generali.
Molti dei nostri leader democratici vivono in uno stato confusionale ed hanno abbandonato i temi del lavoro e del riscatto sociale; molti intellettuali hanno abdicato al proprio ruolo per interesse. La sensazione è di assistere ad una degenerazione della politica. È innegabile storicamente che il successo delle relazioni affettive, sociali, commerciali, fra individui e stati, dipendano dal capitale sociale e dalla fiducia. E se c’è fiducia le relazioni scorrono e la vita sociale riprende. Insomma, il quadro ci rappresenta una società corrotta, dove le istituzioni politiche sono deboli e le forze sociali, per quanto confuse e miscelate, molto più forti. La forza di un paese risiede certamente nella sua crescita economica, ma soprattutto dalla sua capacità di distribuire la ricchezza in maniera equa, così pure il lavoro, le opportunità.
Dopo le ultime elezioni l’Europa sembra aver voltato pagina, promuovendo, come ha fatto, un piano per il superamento della crisi internazionale che prevede massicci investimenti per la crescita sostenibile e l’occupazione di qualità; sistemi di welfare inclusivi e strutture innovative di ricerca ed istruzione; la fine dell’evasione e delle frodi fiscali; una tassazione equa per finanziare un piano di investimenti. Anche in Italia la leadership forte (fino a prova contraria) di Renzi sembra essere orientata a realizzare un modello basato su una forma di flexsecurity, che pone innanzi a tutto il resto la facilità di trovare lavoro più che l’impossibilità di perderlo. Di rimando spinge per realizzare grandi opere; per riformare la scuola; per aumentare la formazione, rendendola permanente; insomma sembra avere in mente un modello (vicino a quello tedesco) da costruire con caparbietà. Se è così, è un passo importante, perché il nostro disorientamento deriva proprio dalla carenza di un modello condiviso di vita. È il non modello ad indebolire i legami. Si perché alcuni, i più forti, emergono comunque anche a scapito degli altri. Per questo bisogna agire con paradigmi nuovi dove Lifelong learning non è solo una indicazione europea ripetuta per impressionare, ma diventi prassi consolidata: apprendere, per formarsi e cambiare, per tutta la vita deve diventare un dovere: ma per apprendere in tal modo ci vogliono politiche attive, creatività, opportunità verso cui misurarsi, flessibilità, autonomia, coraggio. All’interno di questo nuovo paradigma ci devono essere interventi che favoriscano la creatività, i processi di empowerment, imprenditività, il tutto all’interno di una nuova visione economica in cui il “commons collaborativi” (Rikin) è il nuovo paradigma economico. I nostri politici, i sindacati devono andare oltre il passato e proiettarsi verso questo futuro.
La crisi non è solo crisi economica è assenza di modelli concettuali con cui elaborare una strategia. Il partito democratico, ha detto molto efficacemente De Masi, è un “estuario melmoso” in cui trovi di tutto: cattolici faccendieri e laici baciapiedi; conservatori e progressisti; ma anche ex: ex sessantottini; ex marxisti; ex democristiani; ex socialisti; ex preti; ex balilla. Ma questa non è la sinistra. E di sinistra c’è sempre bisogno: ovunque nel mondo ci sono vittime o ingiustizie, c’è bisogno della sinistra. Occorre una sinistra moderna,organizzata, colta, post-industriale, coesa. Questo è il territorio per l’unico dibattito politico credibile. Se qualcuno avrà il coraggio e la forza di condurlo, sarà il traghettatore della nuova era.