Perché una famiglia sia una famiglia secondo i crismi dettati dalla religione e dalle teorie della parentela, bisogna che essa si costituisca attorno a quello che gli antropologi hanno definito l’atomo di parentela costituito dai genitori (biologici o sociali) e da almeno un figlio. Questa unità minima della struttura sociale sembra attraversare una delle crisi più profonde dall’origine della storia dell’umanità. Già nei primi anni novanta l’Italia aveva raggiunto un tasso di natalità di circa 1,3 figli per famiglia, a quel tempo i più bassi del mondo. Ma negli ultimi anni i dati diventano sempre più sconfortanti tanto che una recente indagine del CENSIS (1 ottobre 2014) ha dimostrato che solo nel 2013 in Italia si è registrata una riduzione delle nascite del 3,7% rispetto all’anno precedente, con un calo del tasso di natalità da 9 a 8,5 nati per mille abitanti e che dall’inizio della crisi economica a oggi sono più di 62.000 i nati in meno all’anno, passando dai 576.659 bambini del 2008 ai 514.308 del 2013, il numero più basso nella storia d’Italia (le serie storiche ufficiali partono dal 1862), nonostante l’aumento della popolazione, i progressi della medicina e il contributo degli immigrati residenti.
Ma l’Italia è veramente una nazione destinata a morire di vecchiaia? Le donne hanno veramente smesso di desiderare la maternità? Se consideriamo questi dati a partire da quello che succede a Napoli nel piccolo santuario della fertilità dedicato a Santa Maria Francesca delle cinque piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo, osserviamo una netta controtendenza. Santa Maria Francesca è meglio nota come La Santa della Famiglia e della Vita. Nella sua casa santuario annessa alla chiesetta di Vico tre re a Toledo, nei Quartieri Spagnoli, arrivano ogni giorno da tutto il circondario urbano ed extraurbano, ma anche da altre regioni d’Italia e da paesi esteri, numerosissime donne con problemi di fertilità, più o meno giovani, di provenienza sociale e livelli di alfabetizzazione eterogenei per sottoporsi ad un particolare rituale, nella speranza di diventare madri. Dopo avere assistito alla celebrazione eucaristica in chiesa, le donne salgono al secondo piano dell’edificio e si dispongono in fila aspettando il proprio turno per potersi sedere sulla sedia miracolosa che appartenne alla santa e ricevere la benedizione. Questa viene impartita con uno speciale reliquiario che contiene una ciocca di capelli e una particella dello sterno della Santa da una delle sette suore che abitano il terzo e il quarto piano del santuario, denominatesi Figlie di Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe. La formula liturgica, più o meno fissa, recitata dalla suora officiante di turno invoca nell’atto della benedizione la Madonna e Sant’Anna, affermando così che la funzione di Santa Maria Francesca sia quella di una potenzavicaria e mediatrice presso altre potenze divine.
Le devote attribuiscono soprattutto alla sedia una funzione magico-terapeutica. La sedia è considerata la reliquia più efficace della santa, ma ci sono nella casa-santuario molti altri oggetti ai quali si potrebbe riconoscere lo statuto di reliquie: le bende e i guanti con cui la santa copriva le sue stimmate, le cordicelle, i cilici, le catene con le quali si fustigava, i materassi dove patì le frequenti malattie negli ultimi anni della sua vita, le stoffe ricamate con le sue mani. E poi ci sono i segni tangibili della sua potentia: le innumerevoli coccarde rosa e azzurre – recanti i nomi di bambini nati per sua intercessione e battezzati con il suo nome – che coprono fino all’horror vacui le pareti di una delle stanze della casa. Le coccarde sono portate dai genitori miracolati in forma di ex voto. Segni ancora più concreti del suo potere sono gli ex voto viventi che arrivano a renderle grazie, e cioè i bambini nati per sua intercessione che vengono portati al santuario ogni 5 ottobre per ricevere la benedizione. Ho ascoltato per ore le storie delle donne che ricorrono a Santa Maria Francesca, a tutte loro ho chiesto di spiegarmi perché ritengono così importante essere madri ad ogni costo.
Molte di loro hanno già passato una o più d’una delle tappe previste dal protocollo biomedico della Procreazione medicalmente assistita. Quasi tutte, indipendentemente dalla provenienza sociale e dal livello di alfabetizzazione, me lo hanno spiegato tirando in causa un presunto “istinto materno naturale e universale” comune a tutte le donne. Nella maggioranza dei casi la maternità non è spiegata tanto come scelta personale, ma piuttosto come convinta adesione ad un determinismo di tipo biologico. Una delle motivazioni più ricorrenti è l’istinto. Il mito dell’istinto materno che Simone de Beauvoir aveva decostruito già nel 1949 nel saggio Le deuxième sexe (Il secondo sesso), torna prepotentemente sulla scena. Anche quando si parla di “desiderio” di maternità questo viene definito “innato”, cioè congenito e dunque non maturato attraverso l’esperienza di vita. Molte mi hanno raccontato di essersi sentite “donne incomplete” senza un figlio, e molte hanno affermato con totale convinzione di essersi sentite madri fin da bambine. Una di loro, in quanto sterile, si definisce «orfana di figlio». Dunque “mamme si nasce” e non si diventa. Le storie di queste donne sono storie di corpi che incarnano inconsciamente modelli culturali ancestrali perché scegliere di non assecondare il modello di donna madre significherebbe, in questo orizzonte di senso, essere devianti (devianti da un modello che viene percepito come il più ovvio e naturale possibile), significherebbe andare contro-natura e di conseguenza non riconoscersi nella propria identità di ruolo e perdere il consenso sociale. I loro discorsi sono diametralmente opposti a quelli delle filosofe femministe, alle teorie di Simone de Beauvoir, Nancy Chodorow, Julia Kristeva, Elisabeth Badinter. Qui l’istinto materno è un fondamento etico ed esistenziale inamovibile. La donna è matrix, a lei viene riconosciuto il potere di dare la Vita, qualcosa di sacro in pericolo di scomparire. In questa società, ancora incentrata su quel modello che Anne Parsons definì “matriarcale” e Thomas Belmonte descrisse più acutamente come “matricentrato”, le donne non sentono il bisogno di mettere in scena rivolte contro il patriarcato, la maternità funziona come “dispositivo di inquadramento della femminilità” nel contesto della famiglia che è considerata un capitale sociale primario. Perciò qui – ma non solo qui – se la Natura non compie il suo corso ‘naturalmente’ rendendo feconde le donne, non bisogna assecondarla, ma è lecito dichiararle guerra per riappropriarsi dell’identità “naturale” di madre, ricorrendo prima alla fecondazione artificiale – quindi alla tecnica come artificio per ricostruire la natura – e poi alla fede, rimettendo comunque, in ultima istanza, la Natura nelle mani di Dio. Se allora il desiderio di maternità sopravvive, ancorandosi in egual misura alla scienza e alla fede, nonostante la crisi economica e l’insufficienza delle politiche pubbliche a sostegno della famiglia, c’è ancora una speranza di scongiurare lo spettro della denatalità e dell’invecchiamento precoce del Paese. L’altra chance sarebbe nel superamento degli angusti confini di un’idea troppo tradizionale di famiglia.