Di Luca Ronconi tutti sanno tutto e tutti ne hanno parlato, dai suoi esordi come attore alla prestigiosissima carriera teatrale. Della sua morte altrettanto, con tutti i meritati omaggi a questa figura del nostro tempo che sopravvivrà per il suo genio visionario, capace di innovare la storia del teatro senza tradirne le radici.
Allora voglio raccontare di Ronconi quello che mi rimane personalmente, il suo lato umano, personale, più che artistico.
Aveva scelto dal 1978 di vivere sulle colline di Gubbio e di trovare in Umbria la sua nuova dimora, lui che passava per essere un solitario, lontano dal mondo sotto i riflettori. A chi gli rivolgeva questa domanda quasi come un rimprovero, Luca Ronconi rispondeva che gli amici dovevano essere pochi. Quattro o cinque, veri possono bastare. Chi gli stava vicino sapeva che non gli piacevano i rapporti fasulli. Solitario, sì, ma generoso nel lavoro, specie con i giovani. “Non mi piace la giovinezza – diceva – ma proprio lavorare con i giovani”.
Non gli piaceva se qualcuno cercava di “capirlo” nel profondo. “Sapere chi sono non piace neanche a me», era solito schivarsi. Era in dialisi da parecchi anni, eppure sempre presente, combattivo e ricco di idee. Affermava che la vita era stata per lui come una partita di calcio, due tempi, e che adesso era ai supplementari.
Luca Ronconi è il genio del teatro italiano, ha reinventato il teatro, non solo italiano, riscoprendone e valorizzandone gli elementi fondamentali: il testo, il lavoro sugli attori e la loro formazione, lo spazio.
«Talvolta mi sento come uno che vive le vite degli altri – diceva Luca Ronconi – Come i personaggi a cui lavoro, che sembrano sempre stare da un’altra parte, e quando intuiscono che invece la vita è questa, quella che vivi, che ti giochi una volta sola, sono assaliti dal panico».
Suscitò scalpore una lunga intervista che rilasciò alla sezione culturale de El Pais, ai tempi del premierato berlusconiano dove definiva l’Italia un paese-farsa. «La situazione più che drammatica è ridicola, ma gli italiani non colgono questa visione che all’estero hanno molto precisa», disse il regista.
Discuteva di realtà e apparenza e, secondo Ronconi, la rappresentazione “ridicola” del paese è stata sempre data meglio dal cinema, da Pasolini a Sordi, in forme diverse. Diceva che la potenza rappresentativa del genio italiano si era impoverita, che l’Italia non fosse più una nazione, che quelle percentuali elettorali di Berlusconi erano da interpretare come un segnale che in Italia sì, si sarebbe certamente potuto in seguito cambiare, ma lo stato del Paese, quello, non sarebbe cambiato. Appunto un Paese farsesco.
Alla luce di oggi, come non dargli ragione?