Nel corso della storia questa struttura è stata prima convento sul finire dell’Ottocento, poi carcere, fino a diventare manicomio. Sette anni fa la chiusura definitiva.
Via Imbriani 218 del quartiere Materdei di Napoli, per un secolo Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Negli ultimi anni vi erano recluse 250 persone a fronte di una capienza di 150.
Nel settembre 2004 la Commissione parlamentare sulle carceri, nel visitare l’istituto, ritenne non idonea la struttura (28 singole celle, 7 doppie, 21 da 3 a 6 detenuti e una da 6 detenuti), con letti di contenzione risalenti al 1935, celle per ammanettare i detenuti, uno spazio enorme abbandonato, nessun contatto reale con l’esterno, atti frequenti di autolesionismo.
La struttura fu chiusa nel 2008 e gli internati furono spostati nell’Opg di Secondigliano. Da allora centinaia di metri quadri di proprietà del demanio militare, affidati alla soprintendenza della polizia penitenziaria: cortili, giardini, campetti di calcio, cucine, un teatro e una chiesa, sono rimasti chiusi e inutilizzati.
Lunedì 2 Marzo decine di studenti, lavoratori, cittadini hanno occupato questi spazi per restituirli al quartiere e alla città, tanti spazi che vogliono essere utilizzati per attività culturali, sociali, aggregative per bambini, famiglie e per tutti quelli che in questi anni sono stati colpiti dalla crisi.
I ragazzi ed il quartiere si sono trovati subito di fronte agli agenti della Polizia Penitenziaria che, giunti sul posto, hanno fin da subito minacciato gli occupanti di sgombero. Per nulla intimiditi, gli occupanti hanno lanciata una vasta campagna a sostegno della struttura con le adesioni di associazioni, movimenti e singole personalità.
Lo stesso sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, prende parte ad un’assemblea indetta dal collettivo e si dichiara contrario allo sgombero militare: “Abbiamo avviato le pratiche col demanio per acquisire l’ex-Opg – spiega il primo cittadino -, manca solo il parere del ministero dei Beni Culturali“.
I ragazzi che in queste ore con turni, diverse attività di aggregazione, di recupero, laboratori teatrali, dibattiti, assemblee, si prestano alla riqualificazione della struttura, rischiano in ogni caso lo sgombero voluto dal corpo penitenziario della polizia.
Essi sono convinti che “non si tratta solo di ottusità, di rispetto cieco dei regolamenti, del risentimento della polizia penitenziaria che ha fatto una pessima figura. La verità è più amara: vogliono porre fine ad un’esperienza che sta diventando “pericolosa” perché tanta gente si sta mobilitando per cambiare le cose, sta capendo la sua forza e si sta interrogando su un mondo fatto di povertà, sfruttamento, carcere. La verità è che vogliono tenerci buoni, ci preferiscono depressi, ci preferiscono consumatori passivi“.
Gli occupanti ritengono necessario trasformare quest’ex luogo di morte e dolore in un luogo di vita. E stanno mettendo in pratica ciò sotto il nome scelto di “Je so pazzo“, perché – spiegano – “in un mondo dove la normalità è fatta da disoccupazione, precarietà, discriminazioni razziali e di genere e chi più ne ha più ne metta, vogliamo dichiararci pazzi anche noi e osare organizzarci per riprendere parola e costruire dal basso un’alternativa al mondo grigio e disperato che vediamo quotidianamente”.
Ed ecco che, questa struttura abbandonata da molti anni, si sta, poco alla volta, ripulendo e ristrutturando per restituirla alla cittadinanza e farne punto d’incontro, sede di varie attività per il quartiere.
È camminando tra queste mura, i suoi corridoi, i vasti spazi tutt’ intorno, che ti fai la domanda mai retorica se queste mura potessero parlare… Potrebbero raccontare storie come quella di Vito, internato per 50 anni e graziato dal presidente Carlo Azeglio Ciampi dopo una campagna lanciata da Francesco Maranta, autore anche del testo “Vito, il recluso” diventato poi un cortometraggio.
Questo è il tentativo di riaprire alla comunità uno dei luoghi più bui dell’internamento di sofferenti psichici, un’ex luogo di dolore e prigionia che vuole diventare luogo di comunità, socialità e incontro.
Novemila metri quadrati che si ergono nella collinetta del quartiere Materdei, fatti di celle, d’isolamento, di scritte e poesie dedicate spesso alla crudeltà delle guardie, ai letti di contenzione, alla libertà…
Ora il cortile dell’ora d’aria è adibito a campetto di pallavolo. C’è il campetto di calcio, un teatro. I murales di Maradona e Che Guevara… Tutto questo in poche settimane.
Ma c’è uno sgombero che incombe come la spada di Damocle. “Rispetto al ruolo delle istituzioni – affermano gli occupanti – in questa vicenda abbiamo ricevuto solidarietà dal sindaco, dal consiglio municipale di Napoli. La solidarietà, dal sindaco ai 99 Posse, ti permette di raggiungere più persone, avere una maggiore visibilità e quindi fortificarti. Le istituzioni, il sindaco, l’assessore, purtroppo, in questa vicenda, hanno poca voce in capitolo. La questione dello sgombero è, infatti, nelle mani della Questura”.
I motivi per i quali vorrebbero attuare lo sgombero i ragazzi lo spiegano senza tentennamenti, senza nascondere nulla: “Il posto è sotto la custodia della polizia penitenziaria. Ora la penitenziaria ha delle responsabilità ben precise rispetto allo stato di abbandono in cui riversa il posto. Noi qui dentro l’abbiamo trovato completamente devastato ed io penso che sia proprio questa la ragione per cui la penitenziaria stia facendo tutte queste pressioni. Che vuole mandarci via. Occupando questo posto abbiamo, in un certo senso, scoperchiato il vaso di Pandora. Adesso le persone hanno anche la possibilità di sapere cosa avveniva qua dentro fino al 2008. I letti di contenzione in cui le persone erano legate risalgono al ‘35, ma queste cose accadevano fino al 2008. Sono pratiche che sono ancora vive purtroppo in certe altre strutture“. Ed ecco che ci spiegano gli scopi fondamentali: “Laddove hanno regnato solo oppressione, autorità e reclusione coatta, vogliamo creare spazi di condivisione, socialità e libertà per venirci in soccorso e riprendere coraggio perché sappiamo bene che se ci uniamo possiamo davvero cambiare le cose“.
Continuano in questa specie di manifesto ponendosi vari obiettivi. Lo spazio che ci riprendiamo vogliamo cominciare ad utilizzarlo innanzi tutto per:
1) sottrarlo all’abbandono, sistemarlo, restituirlo alla città e al quartiere, creando da subito spazi ricreativi per i più piccoli, momenti e percorsi di socialità accessibili a tutti attraverso iniziative, laboratori, spettacoli, mostre, tornei, concerti… In modo da renderlo innanzi tutto un luogo di incontro e di vitalità che esca dalle solite logiche del profitto.
2) riprenderci il diritto allo studio: come studenti ci siamo mobilitati in questi mesi contro la scandalosa gestione regionale e nazionale dei servizi agli studenti che non hanno più mense, borse di studio e alloggi accessibili per continuare il percorso universitario. Per questo vogliamo riappropriarci dei nostri diritti e costruire in questo spazio anche uno “studentato autogestito” per rilanciare il percorso e dare supporto alle istanze di chi altrimenti è costretto a lasciare gli studi, a lavorare solo per pagarsi le tasse annuali, a vivere in studentati con prezzi inaccessibili alla maggioranza creando una vera e propria situazione di “emergenza abitativa.
3) lanciare nuovi percorsi di incontro e mobilitazione a partire dalle nostre concrete esigenze: dal lavoro al territorio, dalle scuole alle università, dalla casa alla sanità, e via così per rilanciare e ampliare la nostra partecipazione e costruire insieme delle proposte concrete ponendoci come unico limite il cielo.
Queste persone vogliono finalmente parlare, bando alle timidezze, continuando a praticare la democrazia come “potere del popolo”, né sessantottini né Pantera, semplicemente cittadini esclusi che “vogliono quindi sì rispondere ad alcuni bisogni immediati, e mostrare in sostanza che le cose si possono fare, che non bisogna necessariamente rinunciare o aspettare che qualcun altro venga a salvare, ma soprattutto organizzare le persone che hanno quel bisogno per rivendicarlo direttamente dallo Stato e dalle istituzioni che devono dare loro“.
Ogni giovedì alle 20 c’è l’assemblea di gestione, in cui si conoscono, discutono e coordinano le varie attività che animano gli spazi e in cui si può venire per proporre nuove iniziative.
“Noi non siamo, – dicono – né possiamo, né vogliamo, diventare un centro servizi, fatto di impiegati e clienti. Non intendiamo creare una piccola isola in un mondo di sfruttamento, né sostituirci alle istituzioni che non fanno il loro lavoro. Per noi aprire uno spazio non vuol dire chiudersi in uno spazio, ma usarlo come base per investire tutta la città. Con le nostre attività sociali“.
Gli occupanti fanno sapere che questa non è un’iniziativa qualunque e che hanno le idee chiare su come possa andare a finire: “E non solo perché in Italia non è mai stato occupato un carcere. E nemmeno perché è il complesso più grande nel cuore di Napoli. Ma perché in queste settimane si sta producendo un meccanismo di partecipazione popolare che coinvolge centinaia di persone, non solo giovani o “alternative”. Se avete pensato che per noi era un gioco, beh, vi sbagliate. Per noi sorridere è solo un altro modo di mostrare i denti. Qui stiamo, da qui non ce ne andiamo!“.
Il giorno di Pasquetta l’ex Opg è stato frequentato da centinaia e centinaia di persone fino a tarda sera, tra laboratori per bambini, musica, tornei di calcetto, colazione e braciata popolare e molto altro ancora. Tra casatielli, vino e “partitelle all’ultima goccia di sudore”, dalle 10 alle 22 c’è stato un viavai di gente d’ogni età che ha raccolto l’invito degli organizzatori di portare chitarre, allegria e amici! Il calendario della settimana prevede giovedì anche la prima iniziativa sul tema – fondamentale – del lavoro!
Tanti auguri ragazzi! Il cielo è blu sopra le nuvole o, come diceva un famoso “cinese”… ” Grande è la confusione sotto il cielo, perciò la situazione è favorevole.