Tre mesi fa, a Parigi, si compiva la ormai celebre strage che ha visto coinvolto il settimanale satirico Charlie Hebdo. In quel tragico attentato, rivendicato dalle forze di Al-Quaeda, persero la vita dodici persone, tra cui il direttore del giornale e i suoi più stretti collaboratori.
A quei tempi, l’intera comunità occidentale, dalla Francia, colpita al cuore, alla Germania, passando per Italia, Spagna, fino agli Stati Uniti, si strinse attorno ai francesi. Diverse manifestazioni e flash-mob videro sfilare, nelle strade delle principali città, milioni di persone a difesa della libertà di espressione. Sui social network impazzava l’hastag #JeSuisCharlie – Io sono Charlie!
È di qualche giorno fa, invece, la terribile notizia della mattanza compiuta in una scuola keniota, in cui centocinquanta studenti universitari sono stati brutalmente decapitati o fucilati dall’esercito dell’Isis, in nome di una drammatica persecuzione ai cristiani.
Qualche titolo di giornale, un paio di passaggi tv e, poi, tutto tristemente già dimenticato. Nessuna sfilata, nessun flash-mob, bacheche Facebook intasate soltanto dai risultati del sabato calcistico.
Pochi giorni successivamente all’attacco parigino, in Nigeria, si compiva una strage simile, invece, a quella che visto coinvolti gli studenti di Garissa. Anche in quel caso, le notizie provenienti dalla capitale francese prendevano il dominio di palinsesti e coscienze personali.
Perché i morti dell’Africa, tra l’altro non circoscritti ai soli fatti sopracitati ma estesi a quotidiane storie di guerra, non scuotono i nostri animi quanto quelli in pelle bianca? Anche il celebre imprenditore Flavio Briatore si è interrogato sull’accaduto, scagliandosi contro la stampa: “Centocinquanta morti africani non valgono dodici francesi?”. Come dagli torto!
Abbiamo contattato l’antropologo Massimo Canevacci, già docente dell’Università La Sapienza di Roma, oggi in servizio presso l’Instituto de Estudos Avançados da USP di Sao Paolo in Brasile per conoscere la sua opinione in merito alla riflessione di cui sopra.
“Quello che accadde in Francia, coinvolse non solo i francesi ma gli europei tutti, almeno quelli che credono nella libertà di espressione e sono cresciuti contro ogni censura. A quelli si aggregarono anche persone dagli Stati Uniti e dal Brasile, anche se in pochi. Quando accade, invece, un fatto così enorme, come nella scuola cattolica in Kenya, penso che i principali soggetti che si debbano mobilitare per contrastare tale atto altrettanto odioso, basato in parte su questioni religiose, ma ancor di più sulla vendetta, (I Kenioti invadono la Somalia, loro rispondono allo stesso modo) siano gli stessi abitanti di quelle zone.” Sostiene Canevacci. “A mio avviso, quindi, il problema deve essere affrontato in primo luogo dagli africani. Solo loro possono contrastare tale barbarie come soggetti politici. Un intervento europeo sarebbe visto di nuovo come ingerenza post-coloniale, come ad esempio i francesi in Mali. Certo, sarebbe stato importante organizzare una manifestazione in Europa ma, questi eventi, purtroppo, accadono quotidianamente in tanti, troppi paesi nell’area medio-orientale, così come in Pakistan, Indonesia e, appunto, in Africa. È altrettanto ovvio che non si può pensare di indire una protesta al giorno contro questi feroci fondamentalisti. E allora cosa? È molto difficile perché è tutto certamente basato sulla forza, ma ancor più sulla cultura. Come si afferma la cultura della tolleranza con chi detesta i tolleranti?”
La riflessione ultima del Professore, forse, è un interrogativo ancor più valido di tutti quelli proposti da noi stessi. In tempi in cui l’odio razziale, denigrare il diverso, stanno tornando pericolosamente in auge in ogni campagna politica anche di casa nostra, è difficile pensare di voler insegnare democrazia e multiculturalità quando queste vengono calpestate da chi dovrebbe farsene portavoce.