Di tanto in tanto, qui in Italia si scatena un polverone, mediatico, politico, propagandistico. Tante voci si accavallano l’una sull’altra, si scontrano e si mischiano senza che l’ascoltatore-spettatore riesca a capire da che parte provengano. E a volte si finisce coll’appoggiare semplicemente quello che urla più forte. Nella notte tra il 18 e il 19 aprile, oltre 900 persone sono morte nel tentativo di raggiungere le coste europee su di un barcone caricato più di quanto il buon senso avrebbe dovuto consentire. Erano migranti provenienti dal Bangladesh, dall’Eritrea, dall’Africa subsahariana quelli che hanno perso la vita nelle acque del Mediterraneo, più vicini alle coste libiche che non a quelle di Lampedusa. Naufragati proprio nell’istante in cui un mercantile arrivava a prestar loro soccorso.
È iniziato poche ore dopo il solito tran tran televisivo, radiofonico, giornalistico e chi più ne ha, più ne metta, che però poco ha a che fare realmente con la sciagura di fatto ancora in corso, perché nessuno può giurare che un altro barcone di qui a breve non correrà lo stesso rischio ed essere preso sul serio. È un dibattito dal sapore promozional-elettorale, in cui ognuno tenta di tirare acqua al proprio mulino, scagliandosi nella diatriba che più di ogni altra, a noi italiani, riesce bene di questi tempi: scagliare la prima pietra contro chiunque possa avere un’ombra di responsabilità. Si gettano al vento parvenze di ipotetiche soluzioni, mai pensate nel dettaglio per essere veramente attuate, ma soltanto per racimolare qualche adepto in più in tempi di campagna elettorale. E tralasciamo quell’altro dibattito che ha luogo sui social network o sui siti delle principali testate online, che non è nemmeno un dibattito e che è, se possibile, ancora più preoccupante, dove migliaia di menti si accendono soltanto quando è il momento di fare spazio al silenzio.
Daniela Santanché ha trovato il giusto mezzo tra le due strade: attraverso il suo profilo Twitter ha fatto sapere che l’unica via per mettere fine alla crisi migratoria diretta verso lo stivale sarebbe quello di affondare i barconi pronti a salpare, ricordando una “simile” operazione messa in atto una decina di anni fa in Albania. Le fa eco Salvini, e dopo di lui anche altri esponenti della destra chiacchierona e dal dito facile, dimenticandosi, o fingendo di dimenticare, quale sia la differenza tra l’Africa e l’Albania. Per realizzare un blocco navale di questo tipo c’è bisogno di un accordo internazionale, che all’epoca fu stipulato tra il governo albanese e quello italiano guidato da Romano Prodi, altrimenti si tratterebbe di una violazione delle convenzioni internazionali riconosciute anche dall’Italia. E poi, tenendo conto che i barconi partono non soltanto dalla Libia ma da tutta l’Africa settentrionale, accordi di questo tipo andrebbero presi con tutti i Paesi coinvolti, e non solo la Libia. E ancora: un blocco navale può davvero mettere fine all’emigrazione che ha origine già dalle regioni meridionali e centrali del continente nero? Allora forse Santanché & co. dovrebbero ricordare pure un incidente avvenuto il 28 marzo 1997, l’affondamento della Kater I Rades e la conseguente morte di 108 persone, proprio con l’operazione di blocco navale in corso. Il che la dice lunga sul fatto che il blocco tanto invocato può soltanto essere un rimedio provvisorio, in quanto non agisce direttamente sul problema, e dunque non lo risolve affatto, perché barche e barconi prendono il largo lo stesso. O affrontano la sorte, e la Marina Militare, o restano a morire in patria.
Maurizio Gasparri, invece, invitava dei non meglio specificati interlocutori a chiedere scusa a Berlusconi, che ci aveva visto giusto con gli accordi con Gheddafi. Un’altra memoria corta, che si dimentica che gli accordi a cui allude avevano portato alla costruzione di veri e propri centri di detenzione. L’Italia aveva versato dei fondi per finanziare la realizzazione di strutture che potessero accogliere i migranti in partenza verso le coste nostrane, dove, però, i diritti umani venivano sistematicamente ignorati, come già denunciavano Amnesty International e Human Rights Watch. Si trattava di centri riempiti sei o sette volte di più rispetto al limite consentito, proprio come i barconi, dove gli “ospiti” se ne stavano ammassati uno affianco all’altro, dove le norme igieniche neppure esistevano e gli abusi si contavano a migliaia.
Il fatto è che una soluzione rapida e indolore forse nemmeno esiste, ma appare chiaro che agire sul luogo non significa costruire prigioni o affondare imbarcazioni. Come appare altrettanto evidente che l’importante non è neppure avere una soluzione, ma sbraitare sempre e comunque, e addossare colpe a chiunque stia dall’altra parte purché non si tratti di noi, e chissà che qualche voto in più non lo si acchiappi anche stavolta. E se l’unica tattica efficace fosse riflettere prima di aprir bocca?