Cultura

Kostabeat! Un evento per ricercatori di cultura

Di Enzo Battara

Una premessa, prima di narrare l’evento “Kostabeat” vissuto nel secondo cortile del Belvedere di San Leucio a Caserta. La premessa è necessaria, perché va stabilito che da sempre l’evento d’arte, inteso soprattutto come performance, non ha mai amato le grandi folle, non si è mai concesso a un pubblico troppo ampio. Sarà per una forma di inconscia gelosia e superbia, un mix che porta i pochi eletti a poter dire “io c’ero”, certo è che l’evento più si offre a una platea ristretta e più genera leggende metropolitane e miti. I pochi che lo possono raccontare sono liberi, senza essere molto contraddetti, di infarcire la narrazione di particolari sfuggiti ai più, a volte inventando volontariamente, altre volte sbagliando nei ricordi o nelle valutazioni.

Certo è che chi ha potuto o può narrare le performance di Gina Pane o di Hermann Nitsch da Peppe Morra, o l’evento Warhol-Beuys da Lucio Amelio, o le modelle in blu di Yves Klein, o la corporeità di Marina Abramovic è stato ed è un privilegiato, un testimone oculare di un evento di per sé irripetibile, unico. I video, le foto non potranno mai narrare tutto ciò che è in realtà avvenuto in una determinata frazione di tempo.

È successo così che nel magnifico cortile del Real Belvedere, censito dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, si siano incontrati una sera i talenti artistici di personaggi straordinari, di rilevanza internazionale, uno è il pittore e musicista californiano ma sempre più romano di adozione Mark Kostabi, l’altro è un esponente musicale di quel sound italiano che ha saputo parlare al mondo, il batterista e percussionista Tony Esposito. Con loro il soprano estone Greesi Desiree Langovits e un gruppo di bravi musicisti, Antonio Nicola Bruno al basso, Lino Pariota alle tastiere e Paki Palmieri alla batteria e alle percussioni. Loro sono i protagonisti del “Kostabeat!”.

Nel cortile del Belvedere non le grandi folle, non il pubblico da concerto rock, ma circa trecento appassionati, veri intenditori. Ormai si è abituati a essere sommersi da pubblicità invadenti, dai manifesti 6 x 3 agli spot televisivi e radiofonici. Lo spettatore potenziale non deve far nulla, le informazioni lo colpiscono anche senza la sua volontà. Invece, in questo caso la promozione è avvenuta in forme diverse, antiche e contemporanee. Si è andati dal passaparola ai messaggi sms, a WhatsApp, a Facebook, a Twitter, ai web magazine, a un quotidiano autorevole come Il Mattino. Una informazione ampia, ma non capillare. Una informazione mirata, capace di raggiungere i “meritevoli”, ma anche un’informazione da andare a cercare. È questo il punto. Bisogna scrollarsi di dosso la tanta pubblicità inutile che inonda ogni potenziale spettatore e bisogna diventare “ricercatori culturali”, persone capaci di andare a cercare sui nodi informativi di internet gli eventi meritevoli di attenzione. Ma c’è troppa pigrizia in giro!

Ecco perché solo trecento persone, i privilegiati, hanno potuto non solo ammirare un concerto dal sound coinvolgente e affascinante, ma hanno potuto anche godere di una performance straordinaria. Su un lungo e fantasioso assolo di batteria di Tony Esposito, l’artista Mark Kostabi ha lasciato la tastiera e ha iniziato a roteare una grande tela rossa. Su quella superficie il pittore ha iniziato a tracciare i suoi inconfondibili segni, riempendola attimo dopo attimo di forme e colori. Un intervento frenetico, spettacolare, emozionante. La folla si è tutta radunata intorno a lui, ognuno riprendeva con videocamera, con smartphone, con macchina fotografica. Ognuno voleva conservare per sé un pezzo di storia, di quella storia. Pochi minuti, poi l’artista esausto si è steso ai piedi del quadro ormai completato, per poi scomparire lentamente dietro all’opera.

Il concerto è finito così, con il pubblico che non voleva lasciare il cortile, quasi a voler conservare e portare nella memoria immagini, suoni, parole, odori, emozioni. La performance era finita, ma la sua scia era ancora viva. Solo l’ora tarda della notte ha indotto ad abbandonare quello che per ognuno era diventato un “locus solus”, un luogo dove aver vissuto una singola e singolare esperienza.

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