Cultura

MASANIELLO, QUEI DIECI GIORNI CHE SCONVOLSERO IL REGNO DI NAPOLI I

“Ai popolani di Napoli che nelle oneste giornate del luglio MDXLVII, laceri, male armati e soli d’Italia francamente pugnando nelle vie, dalle case contro le migliori armate d’Europa tennero da sé lontano l’obbrobrio della Inquisizione Spagnola imposta da un imperatore tedesco e da un paggio italiano”.
Il 29 Giugno 1620, in Vico Rotto al Mercato, uno dei tanti rivoli viari convergenti in Piazza Mercato, teatro di gran parte della Storia del Regno, nasce Tommaso Aniello d’Amalfi (detto Masaniello) da Francesco d’Amalfi (pescatore e venditore al minuto) e Antonia Gargano (massaia, incinta di Masaniello prima del matrimonio) e fratello di Giovanni, di Grazia e di un Francesco morto in tenera età.
Alcune fonti sostengono che Tommaso Aniello nacque ad Amalfi. Va subito chiarito un fatto: d’Amalfi indica il cognome e non il luogo di provenienza. Nel 1896 Salvatore di Giacomo ne rinvenne l’atto battesimale nella chiesa di Santa Caterina in Foro Magno e fu messa la parola fine al dubbio: “A 29 giugno 1620, Thomaso Aniello figlio di Cicco d’Amalfi et Antonia Gargano, è stato battezzato da me, Don Giovanni Matteo Peta, et levato dal sacro fonte da Agostino Monaco et Giovanna de Lieto al Vico Rotto…“.
Il 7 luglio 1997, in occasione del 350º anniversario della sommossa popolare, a conferma ufficiale, il Comune di Napoli ha posto un’iscrizione a Vico Rotto in onore di Masaniello.
Lo storico Giuseppe Galasso ipotizza che l’equivoco «sia stato agevolato e incoraggiato da un consapevole atteggiamento del potere e della cultura ufficiale della Napoli spagnola. Nella fedelissima città non si doveva e non si poteva ammettere la presenza di un infedele, di un ribelle come colui che aveva messo in questione il governo spagnolo a Napoli».
La casa dove visse si trovava tra la “pietra del pesce”, nel quartiere Pendino, dove avveniva la riscossione della gabella sui prodotti ittici, e Porta Nolana, dove invece avveniva quella del dazio sulla farina.
Napoli era all’epoca, con circa 300.000 abitanti, una delle metropoli più popolose d’Europa e piazza del Mercato ne era il centro nevralgico. La grande piazza ospitava bancarelle che vendevano ogni sorta di merce, palchi da cui i saltimbanchi si esibivano per i popolani ed era, come ai tempi di Corimageradino di Svevia, il luogo preposto alle esecuzioni capitali. Essendo il principale centro di commercio della città, in piazza aveva luogo la riscossione delle imposte da parte dei gabellieri al servizio del governo spagnolo.
Molto probabilmente, Masaniello era basso di statura, bruno di carnagione, capelli castani con un piccolo codino dietro la testa e, appena visibili, un paio di baffetti. Masaniello si dedicò all’attività di pescivendolo aiutando il padre. Vestiva sempre con gli umili abiti del mestiere: camicia e calzoni di tela. con un cappello rosso alla marinara camminando sempre scalzo.
La sua principale attività era il contrabbando, perché spesso, per evadere la gabella, portava il pesce direttamente nelle case dei notabili, tanto che la sua fama era già ampiamente consolidata nell’ambiente del Mercato. Lavorava per la nobiltà feudale, tra cui la marchesa di Brienza e don Diomede Carafa, duca di Maddaloni, dal quale era trattato come uno schiavo. Al suo fianco, Bernardina Pisa, la giovane sposina, bella, scaltra ed intraprendente, anch’essa dedida al contrabbando di farina per arrotondare, tanto che aveva trovato il sistema di come ingannare i gabellieri di Porta Capuana, nascondendo il sacchetto con la farina, comprata dai contadini, sotto uno scialle come se si fosse trattato di un bambino appena nato.
Le prime volte le andò bene, ma, un brutto giorno, una guardia si accorse del trucco e la condusse in carcere. Bernardina era disperata e più di lei lo era Tommaso Aniello che cercò di liberare la consorte in ogni modo. I suoi tentativi andarono a vuoto. Per ottenerne il rilascio, Masaniello fu costretto a pagare un riscatto di cento scudi, che racimolò indebitandosi con una figura quasi da leggenda, un certo Giulio Genoino, frate ultraottantenne con un passato da difensore del popolo. Masaniello divenne da allora allievo di don Giulio Genoino, che lo educò al senso della giustizia.
Nel 1619, durante il mandato del viceré don Pedro Téllez-Girón, duca di Osuna, Genoino era stato chiamato due volte a rappresentare gli interessi del popolo contro la nobiltà, svolgendo in sostanza la funzione di un antico tribuno della plebe. Nel 1620 fu però fatto destituire dal Consiglio Collaterale ed incarcerato lontano da Napoli.
Rientrato in città nel 1639, tornò fin da subito a combattere per i diritti del popolo e formò intorno a sé un nutrito gruppo di agitatori, composto da: Francesco Antonio Arpaja, suo vecchio e fidato collaboratore; il frate carmelitano Savino Boccardo; i vari capitani delle ottine della città ed una numerosa schiera di lazzari. Il vecchio ecclesiastico, logorato nel fisico, ma non negli intenti rivoluzionari, trovò poi nel giovane Masaniello il suo braccio armato.
Nella prima metà del ‘600, Napoli versava in un’insopportabile crisi socio/economica, appesantita dalle pretese della Corona di Spagna che, considerando il Regno come una colonia, col conforto del Clero e dell’Aristocrazia, esigeva onerosi balzelli per le sue campagne militari.
Era il 1647 e la pazienza dei napoletani fu messa a dura prova dall’asfissiante governo spagnolo. Gli iberici, nella prima metà del diciassettesimo secolo, si trovarono ad affrontare una serie di rovinosi conflitti che mandarono sul lastrico il florido reame asburgico. Il regno iberico, dunque, per rimpinguare le proprie casse, impose una serie di gabelle al Vicereame di Napoli aumentando di fatto il costo degli alimenti di prima necessità .
Maturarono pauperismo e sfiducia verso le Istituzioni e i loro referenti: sbirri, gabellieri, doganieri, funzionari e giudici, gente estranea alla tradizione e alla cultura locale.
Rodrigo Ponce de Léon, viceré di Napoli, ignaro che nel 1620 un analogo provvedimento avesse scatenato gravissimi disordini, nel 1646 reintrodusse un’onerosa gabella sulla frutta, all’epoca l’alimento più consumato dai ceti umili.
Tutto iniziò ai primi di giugno, quando il carismatico e accattivante Pescivendolo fu incaricato da Genoino di istruire un gruppo di Lazzari. Il 6 giugno del 1647, alcuni Popolani condotti da Masaniello e dal fratello Giovanni bruciarono i banchi del Dazio di Piazza del Mercato e la domenica del 30, durante le celebrazioni della Madonna del Carmine, Lazzari vestiti da Arabi ed armati di alabarde raggiunsero il Palazzo reale.
L’azione dimostrativa si risolse in un nulla di fatto, sicché, la domenica successiva, eccitati da Genoino, essi si riunirono ancora a Sant’Eligio con Maso Carrese, parente dei d’Amalfi e referente dei Fruttivendoli, decisi alla obiezione fiscale. Per placare la tensione montante fu chiamato il Mercante Andrea Naclerio, Eletto del Popolo. Malgrado il ruolo, tuttavia, costui si schierò con i Gabellieri e ne derivò una furiosa rissa nella quale il Carrese perse la vita.
Il giorno della Vigilia di Natale, uscendo dalla Chiesa del Carmine, il Vicerè fu circondato da un gruppo di minacciosi Lazzari, esigenti l’abolizione delle tasse sui prodotti di necessario consumo.
La richiesta fu accolta ma, presto, convinto dai Nobili cui era affidata la riscossione, egli mancò alla promessa. Fu l’evento scatenante: Masaniello si pose a capo della reazione al grido di “Viva ‘o Rre ‘e Spagna, mora ‘o malgoverno” e, sotto la reggia, sfondò le resistenze dei Soldati spagnoli e dei Mercenari tedeschi, irrompendo nelle stanze della viceRegina.

Fine 1° puntata

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