La chiusura dei teatri di Varietà imposta dal governo dopo la disfatta di Caporetto nel novembre del 1917, costrinse tanti attori famosi a cercare nuovi spazi ed a crearsi un nuovo repertorio. Naturalmente, anche Viviani, grande esponente di quel mondo teatrale, si trovò di fronte al problema di una svolta e ne approfittò per realizzare qualcosa a cui pensava da tempo: il passaggio dal Varietà alla Commedia.
Viviani fondò una propria Compagnia, scegliendosi come compagni altri attori del Varietà, di cui fece parte anche Luisella, la sorella, con la quale debuttò il 27 dicembre 1917, al Teatro Umberto di Napoli, mettendo in scena “‘O vico”, commedia in un atto in versi, prosa e musica, composta e diretta da Raffaele Viviani.
Questo atto unico rappresenta il primo lavoro teatrale in cui Viviani tenta di legare insieme più personaggi tipici, già sperimentati, dal suo repertorio.
Per realizzare questo passaggio dal numero all’atto unico, Viviani pensò di far rivivere di vita collettiva quei tipi che egli aveva già portato isolatamente sulla scena, di farli comunicare tra loro in un contesto capace di contenerne due, tre, anche quattro; insomma, diede loro vita drammatica in un’opera finita ed organica, fondendo, in mondo straordinario, la prosa con il canto ed i versi.
Diversamente da quello che si verificava nel mondo della Commedia dell’Arte, dove i singoli particolari erano affidati al capriccio degli attori, Viviani eliminò dai suoi spettacoli ogni forma d’improvvisazione; pertanto, la prosa, i versi e la musica erano rigorosa scrittura, in pratica un teatro pensato e fissato sulla carta che diventava testo.
Raffaele Viviani anche se non ha scritto nessun’opera teorica per svelare i criteri della sua drammaturgia, tuttavia ha dedicato un intero capitolo (Come scrivo il mio teatro) della sua Autobiografia al suo “metodo di scrivere teatro”:
“Non mi fisso sempre una trama, mi fisso l’ambiente; scelgo i personaggi più comuni a quest’ambiente e li faccio vivere come in questo ambiente vivono, li faccio parlare come li ho sentiti parlare. Man mano che le figure acquistano corpo e la macchietta diventa tipo, porto la mia fantasia per la via più logica da seguire, a seconda dei loro caratteri, dell’atmosfera creata; le figure, che man mano balzano vive dall’insieme del quadro, pigliano forma di veri caratteri, le porto decisamente in avanti, in primo piano e le distacco dalle figure minori che mi servono poi unicamente per dare sfondo e colore e tra questi personaggi, già definiti in pochi tocchi, io vi creo la favola. Da questo momento il lavoro comincia ad elaborarsi nella mia mente e, portandolo avanti, cerco di far camminare di pari passo lo scrittore e l’uomo di teatro e spesso l’attore non è estraneo alla passeggiata, poiché viene a portare la sua acquisita esperienza nel procedimento di essa, e solo alla metà del primo atto comincio a pensare alla chiusa più logica per il taglio finale”. (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, Napoli, Guida editori, 1988, p. 125.)
E, soprattutto, l’autore-attore napoletano ci tiene a sottolineare che il suo è un teatro realistico, le situazioni rappresentate sono vere ed i personaggi dei suoi drammi sono creature vive e non letterarie:
“Insomma, io non sono un “letterato”, sono un sensibile, un istintivo; attingo la materia grezza dalla vita, poi la plasmo, la limo e ne faccio opere teatrali, soffermandomi su quanto mi è rimasto impresso, vivendo la mia infanzia a contatto della folla, della folla varia, spicciola, proteiforme, multanime, pittoresca della mia terra di sole. Il mio teatro è fatto di suoni, di voci, di canti, sempre gaio e nostalgico, festoso e melanconico, non di intrecci e di problemi centrali. Vivifico le mie vicende sceniche sempre con qualche cosa di puramente mio, di mio inconsciamente mio, se volete, e riuscendo a non rassomigliare a nessuno, penso che questo è il mio maggior merito. Le cose mie non possono rassomigliare a quelle degli altri, perché fortunatamente le cose degli altri io le ignoro. Mai come in questo caso: Santa ignoranza! ” (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, cit., p. 127)
Nella vastissima produzione teatrale di Raffaele Viviani, oltre una cinquantina di opere, emerge tutto il quotidiano: la disoccupazione, la miseria, l’emigrazione, l’emarginazione, la questione femminile.
Queste tematiche spesso si intrecciano anche in uno stesso testo e la tecnica, assolutamente perfetta, usata dall’autore per innestare tra loro temi così complessi e diversi è il segno indiscutibile della grandezza e dell’originalità artistica di Raffaele Viviani.
Egli porta in scena l’amarezza e la tenerezza, la sofferenza e l’allucinazione, l’ingenuità e la furbizia, l’illusione e la delusione.
La produzione teatrale di Viviani è il realismo della vita partenopea.
Dunque, Raffaele Viviani – come scrive Vittorio Viviani – storicizza la vita di Napoli.
La vera protagonista della sua opera è Napoli, una realtà storica e ambientale, vista con un occhio particolare, di chi guarda alle pene e alle miserie altrui senza patetismo, senza compiacimenti; bensì con la saggezza di chi vuole – come scrive lo stesso Viviani nell’Autobiografia – esaltare il buono e correggere il cattivo.
Insomma, Viviani porta in scena la città di Napoli, l’interpreta e la fa crescere progressivamente.
Raffaele Viviani, nella sua opera, realizza una stupenda fusione musica-testo, al punto che può essere collocato nella migliore drammaturgia europea del primo Novecento. La grande originalità del teatro vivianeo è data dalla presenza e dalla funzione della musica. Infatti, nella sua opera la musica ha un’importanza assoluta ed una funzione insostituibile: attraverso i canti l’autore crea subito l’atmosfera voluta, imprigiona lo spettatore, lo rapisce.
Alla musica, alla canzone spetta il compito di caratterizzare il personaggio, ad ognuno la sua “arietta”, il suo ritornello.
Raffaele Viviani pur non essendo in grado di fissare sul pentagramma il suo pensiero, pur non essendo in possesso di una competenza musicale tecnica è autore delle musiche. È lo stesso Viviani nell’Autobiografia a rivelarci che le musiche se le faceva scrivere, dopo averle canticchiate al maestro.
Viviani produsse circa 1300 pagine trascritte di musica per canto e pianoforte. Suoi collaboratori principali furono Enrico Cannio e Eduardo Lanzetta. La prestazione musicale di questi suoi collaboratori consisteva nella trascrizione della parte melodica del brano e nel conseguente arrangiamento di esso.
‘O vico andò in scena per la prima volta il 27 dicembre 1917 al Teatro Umberto di Napoli (Viviani vi interpretava ben tre ruoli: l’Acquaiuolo, il Guappo innamorato e lo Spazzino).
In questo atto unico del 1917 domina un tema che ricorre spesso nel teatro di Raffaele Viviani: la disoccupazione. Questo tema, già presente nelle prime macchiette vivianee (‘O Mariunciello), appare chiaro in ‘O vico, dove si contrappongono personaggi di diverse fasce sociali, ma tutti oppressi dal problema della ricerca di un posto di lavoro. Viene fuori l’immagine di una Napoli sofferente, povera, amara e misera. Qui il realismo di Viviani è indiscutibilmente crudo.
La commedia è ambientata in un vicolo napoletano, con la sua miseria ed i suoi bassi. Vi compaiono dodici personaggi, che sono solo alcuni dei tipi più significativi ed originali del teatro di Viviani: Mastu Rafele, il ciabattino in miseria, con la moglie Rachele, giocatrice del lotto; i due innamorati (Prezzetella, ‘a capera e l’Acquaiuolo) che sperano un giorno di potersi sposare; Donna Nunziata, ‘a cagnacavalle; Totore, ‘o guappo ‘nnammurato; lo Spazzino e Ferdinando, ‘o cane ‘e presa.