Cultura

Sant’Aspreno al Porto

Sant’Aspreno, primo vescovo di Napoli, visse tra la fine del I secolo e gli inizi del II, sotto gli imperatori Traiano e Adriano, epoca in cui si fa risalire la nascita della Chiesa partenopea.

Secondo una leggenda, l’infermo Aspreno si sarebbe convertito dopo essere stato guarito da san Pietro, che lo consacrò poi vescovo. Durante il suo mandato avrebbe fatto costruire un edificio di culto dove poi sarebbe sorto il Duomo di Napoli. La leggenda attribuisce ad Aspreno anche la fondazione della Basilica di San Pietro ad Aram, prima chiesa napoletana.

Recenti ricerche hanno affermato che i suoi resti si trovassero nelle Catacombe di San Gennaro e poi traslati nel Duomo sotto l’altare della cappella che porta il suo nome.

Ed eccoci qui nella Chiesa di Sant’Aspreno al Porto a lui dedicata, nota anche come chiesa di Sant’Aspreno dei Tintori, dagli artigiani che abitavano nel quartiere, inglobata nel fianco del Palazzo della Borsa.

I progetti del Risanamento di Napoli, alla fine del’800, prevedevano che dove sorgeva la chiesa fosse eretto il nuovo palazzo della Borsa. I progetti furono poi modificati, ottenendo la riduzione dell’ampiezza della strada e che gli ambienti della Borsa fossero ridisegnati, realizzando un vestibolo all’ingresso dove collocare le colonne del demolendo chiostro.

La chiesa inoltre fu oggetto di radicale risistemazione in occasione della costruzione del nuovo palazzo. Infatti, la pianta fu modificata e dell’antica struttura non rimase più nulla se non l’ipogeo e alcuni elementi artistici e archeologici già presenti.

La chiesa, di modeste dimensioni, ha una semplice pianta a croce latina, con un piccolo transetto e una cupoletta decorata con stucchi neoclassici. La Cappella ospita alcune colonne antiche prelevate dal chiostro di San Pietro ad Aram. In questa zona, ritenuta parte di un complesso termale d’epoca imperiale, troveremo anche resti di strutture paleocristiane, come l’altare, una pietra circolare che aveva funzione di fonte battesimale e l’acquasantiera ricavata da un’urna cineraria Romana.

Ai piedi dell’altare è presente una grata che copre l’apertura ricavata durante il restauro del XVII secolo per dar luce all’ipogeo.

E’ questo un ambiente rettangolare che dovrebbe risalire al VI secolo d.C. e che presenta un sedale lungo le pareti ed un altare racchiuso da un recinto. Le decorazioni a drappeggio, ancora ben visibili sulla parete, dovrebbero risalire alla stessa epoca, ispirate a modelli romani.

Una scala porta all’ipogeo, che viene chiamato cripta o sacello di Sant’Aspreno. È un ambiente a botte appartenuto ad un edificio termale romano di età imperiale, dove è conservato un altare rupestre dell’VIII secolo alla cui base si apre un ampio foro dove i fedeli inserivano la testa affinché fossero guariti dall’emicrania, male che Sant’Aspreno aveva e ha fama di curare.

Sull’altare maggiore è visibile il busto del santo ornato da ex-voto.

Secondo una tradizione popolare, Sant’Aspreno guariva emicranie e cefalee, come confermano questi ex-voto donati al Santo in cui si tratta prevalentemente di teste.

Molti attribuivano questa sua dote miracolosa al fatto che fu decapitato a causa della sua conversione, mentre altri la associavano al suo modo di fare penitenza e cioè mettendosi una pietra sul capo. I devoti tormentati dall’emicrania usavano accostare la testa dolente nel buco, pare con immediata scomparsa dei sintomi. Nella stessa cappella, una serie di affreschi documenta Aspreno che guarisce un’inferma dal mal di testa, sana un devoto affetto da artrite mentre, in un’altra scena, libera un malato dalla nefrite. Queste virtù taumaturgiche del santo sembrano corrispondere perfettamente allo spettro farmacologico del comune farmaco detto Aspirina.

Alcuni affermano che nel 1899 la Bayer si ispirò al Santo per dare un nome al nuovo farmaco, in quanto fu proprio un napoletano, Raffaele Piria, ad isolare l’acido salicilico.

Se da Aspreno ad Aspirina il passo è breve, almeno sul piano dell’assonanza, ci si domanda però come mai la credenza popolare napoletana ebbe tanta eco un secolo fa tra i responsabili della Bayer al punto da chiamare il farmaco non col nome del principio attivo – ovvero l’acido acetilsalicilico – ma con quello del santo. Forse anch’essi pensavano che una protezione supplementare non guasta mai e che in fondo un santo al giorno leva il medico di torno.

 

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