«La scena è sezionata. A sinistra, appare l’interno della baracca peschereccia di Zi’ Austino Caramiello, detto “Cient’anne”, costruita da oltre un secolo, con rozze tavole. Dai vetri di un’ampia finestra della parete frontale, dalla porta comune che segue, e da una larga cancellata, aperta nella parete di destra, si scorge indistintamente l’esterno (che occupa l’altra metà del palcoscenico): l’arenile, il mare che lo lambisce a riva e l’orizzonte lontano, a notte: una ventosa notte invernale. Sull’arenile, alcune grosse barche tirate a secco; altre, pronte ad essere calate in mare, sono all’estremo limite destro della scena dove s’innalza il traguardo di un’alta scogliera. In primo piano, nella parete di sinistra della baracca, si apre una porticina che comunica con un secondo vano. Ovunque vi sono reti, nasse, funi, ceste, remi, coffe di giunco, qualche timone in disuso ed altri arnesi da pesca. Pendono dal soffitto a travate un veliero in miniatura ed un lume di bordo che inonda di povero chiarore l’ambiente. Lungo la cancellata un lettuccio di ferro, con una specie di materasso fatto di canne.
Nell’interno, Zi’ Austino – un vecchietto rinsecchito e smilzo – è seduto su di una sedia a sdraio da piroscafo, accanto ad un braciere acceso. Intorno al fuoco, coi volti alla fiamma, seggono anche Pascale, detto ” ‘O spasellaro” – un omone sui cinquant’anni-, il giovane ‘Ndrea detto “Temmone”, dal volto affilato ed angoloso, e Gennarino, detto “Ciceniello”, che è quasi un ragazzo, e che tra i due compagni che suonano l’uno un mandolino, l’altro una chitarra, va accennando a fior di labbra una canzone marinaresca. Il canto raggiunge l’esterno dove gli altri pescatori – con casacche e berretti di tela cerata- sono intenti a contemplare il carico degli attrezzi sulle barche, per l’imminente partenza per la pesca».
- Viviani, I pescatori, in ID., I capolavori, a cura di A. Lezza, Napoli, Guida, 1992, pp.397-8.
“Pescatori”, è un dramma in tre atti del 1925, che rappresenta una comunità che vive secondo le ferree regole di una organizzazione tribale. Sistemati e quasi confinati sulla spiaggia di Mergellina, i pescatori consumano la loro dura e triste esistenza tra la baracca sulla spiaggia e il mare aperto, incalzati dall’avanzare dell’edilizia abusiva e selvaggia.
Il rapporto tra Raffaele Viviani ed il mare passa essenzialmente attraverso la vita di chi sul mare ci lavora, i pescatori, le loro baracche attrezzate, le loro barche.
Viviani racconta il mare, il mare leggendario della sua amata città: e qui vi ritrova il “pesce Nicolò”, un ragazzo maledetto dalla madre per le sue continue immersioni. Immerso in un abisso di sogni. Anche quando non ci sono confini protettivi, insenature accoglienti, porti sicuri, l’acqua nasconde lo stesso magico incanto.
Viviani immagina e dipinge l’immensità dello sguardo lanciato verso l’orizzonte solcando l'”Oceano”, a bordo di un piroscafo che porta lui e la sua compagnia nel 1929 fino a Buenos Aires.
L’oceano sempre mare,
nun vide addò fernesce:
‘a fine nun ce pare,
a ghiuorno a ghiuorno cresce.
Quacche vapore attuorno,
appare e po’ scumpare.
E passa n’atu juorno,
e mare mare mare.
E fila ‘o transatlantico,
e arriva ll’Equatore,
luntano ‘a tutte ‘e diebbete,
luntano ‘a tuttìammore.
Guarde ‘a dint”o binocolo,
e ‘a terra manco appare.
‘Na stesa immensa ‘e nuvole.
E mare mare mare