Quando si parla del compositore napoletano Stefano Gargiulo, si finisce sempre col sottolineare quello che, assai probabilmente, rappresenta il traguardo più sensazionale fino ad ora raggiunto: la vittoria americana. Si tratta, cioè, del premio al Miglior Album Strumentale ai Los Angeles Music Awards dello scorso anno, nonché della nomination agli Hollywood Music in Media Awards del 2014 che, per quanto non si sia concretizzata in premio, resta ugualmente una vittoria considerevole. Prima o dopo il trionfo negli USA, si arriva a soffermarsi su quell’altro dato che, se possibile, suscita ancora più ammirazione, vale a dire che è di un autodidatta che stiamo parlando. La storia di Stefano Gargiulo è esattamente una di quelle storie fatte di impegno, passione e tanta, tanta gavetta, prima di arrivare alla meritata notorietà. Oggi, a 34 anni, può considerarsi fiero, e magari anche un po’ geloso, di tutto quello che s’è conquistato.
Ultima tappa del suo successo, il concerto del 22 ottobre al Teatro San Ferdinando di Napoli dove, con la collaborazione del maestro Gianni Ephrikian e della partecipazione, tra gli altri, del maestro Keith Goodman, della soprano Ilaria De Martino, dell’incantevole fischio di morriconiana memoria di Salvatore Liguori e dell’interpretazione di Mariano Daniele, Gargiulo, nelle vesti di direttore d’orchestra, ha offerto al pubblico (numerosissimo) presente in sala un concentrato di brani originali scritti direttamente di suo pugno. Ciò che vale la pena di sapere, a proposito della sua musica, è che ha l’impronta di un artista che nelle sue creazioni mette l’anima a nudo e rivela la sua sensibilità, e tra i richiami di una sonorità d’ispirazione folkloristica e le note dei violini a ricreare un’aria indubbiamente onirica e incantata, si resta paralizzati dalla malinconia, dalla forza e dalla poesia che si avvertono tutt’intorno. Noi abbiamo fatto quattro chiacchiere con Stefano Gargiulo dopo questo evento.
Partiamo da Hollywood, perché quell’occasione è stata la consacrazione del tuo talento all’estero, che inevitabilmente ha avuto la sua eco anche qui in Italia. Come sono cambiati i tuoi rapporti con la città e con le istituzioni locali al tuo rientro? Hai trovato qualche porta aperta in più o hai riscontrato le solite difficoltà che incontra un ragazzo che tenti di emergere e di far sentire la propria voce (nel tuo caso, la propria musica)?
Los Angeles, la città degli angeli e del sogno americano. Ero lì da umile compositore partenopeo, con tanta emozione ma soprattutto il desiderio di lasciare qualcosa della mia Napoli oltre oceano. Questo profondo desiderio ha avuto una risposta positiva, perché alla serata di gala dei LA Music Awards, durante la premiazione delle varie categorie sento pronunciare il mio nome, come “Instrumental Album of the Year”. L’emozione non può essere scritta, ma solo vissuta, le parole non renderebbero giustizia. Al mio ritorno a Napoli, il comune della mia città, più precisamente nella persona dell’Ass. Clemente mi dà un riconoscimento cittadino, e da lì incomincio ad avere un rapporto con le istituzioni, fin ora a me sconosciuto. Come ho sempre detto vincere in terra straniera è un conto, ma ricevere un riconoscimento dalla propria città è tutt’altro, ha un significato molto forte, un valore aggiunto.
Il 22 ottobre si è tenuto il concerto al San Ferdinando con l’orchestra da te diretta. È stato il tuo primo concerto? Cosa ha significato poter dirigere la propria musica nella propria città?
Si, il 22 sarà una data che non dimenticherò mai, grazie al M°Ephrikian ho realizzato un sogno che andava oltre le mie più rosee aspettative, il mio primo concerto di musica classica contemporanea, nella mia Napoli. Scrivere musica nelle proprie quattro mura di casa, e poi dirigerla dinanzi ad un pubblico stupendo, mi ha commosso tantissimo. Avevo paura di sbagliare, avevo il terrore di tutto, tutto mi irritava. C’era attesa, ansia, dubbi, sconforti, ma alla fine è prevalsa la passione e la determinazione di portare avanti questo sogno, di rendere concreto ciò che era inimmaginabile.
Una domanda sulla tua musica: brani strumentali, colonne sonore, influenze folkloristiche miste ad atmosfere gotiche: da dove nasce questo intrigante miscuglio, questa attitudine a seguire strade simili ma in qualche modo diverse? Ci racconti di una composizione che abbia per te un significato particolare?
Ascolto tanta musica, cercando di capire cosa può andar bene e cosa no nelle mie ispirazioni musicali. E’ importantissimo entrare nell’armonia delle note, percepire la loro vibrazione ed essere parte di essa. Beh, ricordo sicuramente Lilith’s Song (che ho dedicato alla mia compagna Myriam), è un valzer d’amore e di mistero, un piacere sensuale, levigato, come una carezza sulle guance. Un mondo immaginario, surreale, onirico, quasi se vogliamo Burtoniano.
Stefano, un’ultima, semplice domanda sul tuo futuro: c’è qualcosa che non abbia ancora fatto e che vorresti provare nei prossimi anni? Lavorare in un preciso settore dell’industria discografica, sperimentare musica nuova, collaborare con un artista in particolare…
Il sogno di tutti i compositori è quello di vincere un giorno un Oscar. Ma per far questo devo prima impegnarmi ancora e ancora di più, fare ancora tantissima gavetta, ma soprattutto incappare in una produzione Mainstream, del tipo Universal, MgM, Paramount, Lake Shore, Legendary. Ho un sogno e lo porterò avanti, sempre. So che troverò porte chiuse nel mio cammino, ma questo non farà altro che fortificarmi ancora di più. L’importante non è cadere, ma rialzarsi dopo la caduta.