Per parlare della Repubblica Partenopea, che trova giudizi contrastanti tra gli storiografi e accese diatribe nelle fazioni discendenti da quegli avvenimenti, non si può non citare l’origine di quei moti, nel Regno di Napoli come in tutte le rivoluzioni europee dell’epoca, che ci portano alla Rivoluzione Francese, uno degli eventi più importanti della storia dell’uomo che maggiormente hanno costituito oggetto di disquisizioni.
Fuor di dubbio, essa non fu rivoluzione popolare ma borghese, la classe dell’illuminismo liberale e anticlericale, e pose le basi dei principi fondamentali della democrazia, delle forme di organizzazione della società e delle conquiste politiche, della articolata problematica intrinseca al rapporto fra stati e religioni.
In Francia, la situazione politica e sociale nel XVIII secolo, si delineava, negativamente, più marcata, rispetto alle altre realtà d’Europa: troppo divario tra le classi sociali esacerbava in maniera inquietante le masse, costituite prevalentemente dal ceto contadino, che tassato all’inverosimile, per il sostentamento delle spese sostenute dall’aristocrazia, si alleò nella contestazione con la piccola e media borghesia.
Il 1789 è stato l’anno dei grandi sconvolgimenti sia per i francesi sia per il resto della civiltà europea: il 14 luglio ci fu la presa della Bastiglia e un mese dopo con la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e dei Cittadini”, venivano aboliti i diritti feudali, le classi sociali, più tardi la schiavitù nelle colonie e tutto ciò che ostava i principi esistenziali dell’uomo.
Negli anni successivi, la Francia rivoluzionaria, acquistò la simpatia, in quasi tutta Europa, di molti intellettuali e di una considerevole frangia delle classi popolari. In Italia, questa sorta di deferenza per la Francia rivoluzionaria, si era diffusa soprattutto negli ambienti borghesi, nel clero meno bigotto e più erudito ed anche in una ristretta cerchia dell’aristocrazia e in alcune aree, anche se in maniera confusa, fra le masse contadine-popolari. Il motto rivoluzionario della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, attraverso circoli e organizzazioni, diede vita a quel fenomeno definito giacobinismo italiano.
A Napoli, le sostanziali innovazioni apportate nella società dalla Rivoluzione Francese, non trovarono celere impatto fra le classi più illuminate, e più preoccupati, rispetto quegli eventi, si dimostrarono re Ferdinando e sua moglie Carolina (la sorella Maria Antonietta fu ghigliottinata) che ben presto cominciarono a condurre, nel Napoletano, opera di persecuzione fra i presunti giacobini o filo francesi.
Il concetto di giacobinismo: esso nacque in Francia presso un monastero domenicano dedicato a San Giacomo ( Saint Jacobs ) nel 1789 sotto forma di associazione o club, i cui frequentatori, per la maggior parte dotti illuministi, venivano denominati giacobini. Gli obiettivi da loro prefissati erano, in linea di massima, tre: dotare la Francia di una costituzione, corrispondere con altre società analoghe e illuminare il popolo e prevenire i loro errori.
In Sicilia nel 1794 una organizzazione progressista, progettò una repubblica ispirata ai principi di eguaglianza, ma scoperto il disegno anti monarchico ed anti oligarchico, trovò una dura. Napoli fu la città dove le idee giacobine, mimetizzandosi nella massoneria, si incunearono con maggiore compattezza.
L’abate calabrese Antonio Jerocades e l’abate Teodoro Monticelli, professore di Etica nella Regia Università di Napoli, fondarono in Capodimonte, un’apparente loggia massonica, e gli adepti, consacrandosi alla fratellanza patriottica antimonarchica, giurarono fedeltà alla rivoluzione e a tutte le forme in cui essa avrebbe trovato determinazione. Gli adepti, riconoscendosi fra loro come “patrioti giacobini”, prefissavano come obiettivo primario, l’abbattimento della monarchia e l’istituzione della repubblica.
Nello stesso ambiente, per opera di Ignazio Ciaja, venne a formarsi il club giacobino “Sans comprimission” cioè a dire senza compromessi. Ma il giacobinismo napoletano trovò vera consistenza nelle idee e nello zelo di due giovani scienziati: Carlo Lauberg e Annibale Giordano, colleghi, alla Nunziatella, che, pur provenienti da famiglie nobili e chiaramente filo monarchiche, convertendosi alle idee della Rivoluzione Francese, diedero una forte impronta al radicalismo politico napoletano. Furono essi che progettarono, all’interno delle varie logge e dell’Accademia della Chimica, la Repubblica Partenopea.
Nella notte fra i 19 e 20 febbraio del 1799 comincia una delle pagine più straordinarie della storia del mezzogiorno d’Italia: i repubblicani napoletani occuparono la fortezza di Sant’Elmo proclamando la Repubblica Napoletana. Il 23 gennaio dello stesso anno, Carlo Lauberg al seguito delle truppe francesi comandate dal generale Championet, entrò in Napoli fra i sussulti di gioia dei repubblicani nonostante la disperata resistenza delle armate borboniche e degli irregolari (i cosiddetti lazzari) e lo stesso generale Francese, riconoscendo la Repubblica consorella della Francia, nominò il Lauberg primo ministro che nel febbraio venne sostituito da Ignazio Ciaja. Venne costituito un governo provvisorio di venti membri, poi allargato a venticinque, tra cui erano C. Lauberg (che ne fu il primo presidente), I. Ciaia (divenuto presidente alla fine di febbraio), M. Delfico, M. Pagano. Il governo si articolò in sei “comitati” che formavano l’Assemblea legislativa ed esercitavano il potere esecutivo in attesa dell’organizzazione definitiva del governo. La bandiera azzurra gialla e rossa rappresentava i colori e l’oro di Napoli, la lingua ufficiale era quella italiana e la religione di stato quella cattolica. I ministeri furono affidati in gran parte ai dottrinari del tempo: Pagano, Ciaja, Laubert, Albanese, Pignatelli, Doria, Cestaro, Bruno, Albamonti, Baffi ed altri. Il 25 aprile si approvò la legge sulla “abolizione della feudalità”, che non trovò applicazione per la repentina caduta della Repubblica avvenuta il 13 giugno dello stesso anno. I francesi non entrarono a Napoli come invasori, ma sollecitati e invocati dal governo della Repubblica Partenopea che si era instaurata in seguito alla fuga del Re in Sicilia il quale, purtroppo, aveva lasciato la città di Napoli sprovvista persino della sua flotta navale, il fiore all’occhiello delle forze armate napoletane, ma i repubblicani non erano però benvisti dal popolo poiché molto lontani dalle loro vere esigenze. Inoltre attuarono una spietata repressione nei confronti di qualunque oppositore della repubblica.
I reali, Ferdinando e Maria Carolina, con il primo ministro Acton, come detto, già dalla fine del mese di Dicembre del 1798, imbarcatisi su un vascello inglese, messo a disposizione per l’evenienza dall’Ammiraglio britannico Orazio Nelson, raggiunsero Palermo e qui su insistenza di Maria Carolina e del suo primo ministro ebbe inizio, il 7 febbraio, la controrivoluzione. L’ardua impresa della riconquista del regno fu affidata al cardinale Fabrizio Ruffo, Vicario reale e intendente della reggia di Caserta, che molto quotato nelle Calabrie, si pensò come unico e migliore elemento per la sollevazione delle sue popolazioni. Il Ruffo partì da Palermo con solo tre mila ducati donatigli dal re e alla testa di ventimila uomini, tutti insigniti di una croce bianca sul capello. I repubblicani erano poco conoscitori e molto dottrinari rispetto ai problemi delle province, il cardinale, invece, essendo a conoscenza dell’ignoranza e di più della superstizione incuneatasi nelle masse, giocò la sua carta vincente sulle ricompense terrene e quelle… celestiali, e facendo leva sull’odio delle masse contadine nei confronti dei proprietari, identificati sommariamente nei giacobini. Intanto, gli inglesi, mentre le truppe del Ruffo risalivano lentamente le Calabrie, liberavano dalle carceri delle principali città, tutti i detenuti costringendoli ad arruolarsi nell’armata dei sanfedisti, quindi si può presumere con facilità, con quale categoria di persone andavano a scontrarsi i giacobini: briganti, delinquenti comuni , ladri stupratori e la peggior plebaglia del regno. Durante la marcia su Napoli, le truppe del cardinale lasciarono sulla loro scia efferati omicidi e incredibili furti con violenze. L’esercito sanfedista, dopo la battaglia combattuta al Ponte della Maddalena, entrò a Napoli protetto dal mare dalle navi d’Orazio Nelson, la cui flotta neutralizzò le fregate repubblicane al comando dell’ammiraglio Francesco Caracciolo.
I repubblicani, dopo aver chiesto aiuto alle truppe francesi stanziate in Lazio, richiesta che non venne accolta, tentarono un’eroica resistenza sperando che il popolo si unisse per cacciare gli invasori.
Venne rimesso sul trono Ferdinando IV di Borbone che era fuggito a bordo di una nave inglese all’arrivo dei francesi.
La vittoria sui repubblicani si concluse con un trattato che fu firmato, su richiesta dei vinti, dal Vicario Generale Ruffo, dal capitano Foothe a nome del re d’Inghilterra, dal generale Basiilic comandante le truppe russe e per i repubblicani dal generale Massa e dal generale Aurora, rispettivamente comandanti di Castel dell’Ovo e Castel Nuovo con la controfirma del generale francese Mejean. Le condizioni di pace, imposte da cardinale Ruffo, furono onestissime: ai congiurati veniva concessa la facoltà, senza la perdita di beni mobili ed immobili e senza che le loro famiglie venissero oltraggiate, di imbarcarsi per Tolone; che cedessero le fortezze alle truppe regie con l’onore delle armi e altre eque e sagge concessioni. Paradossalmente, all’arrivo dell’ammiraglio Nelson, su esplicito ordine dell’Acton, tutte le condizioni firmate e controfirmate vennero annullate e addirittura il cardinale Ruffo rischiò di essere imprigionato per la eccesiva indulgenza concessa. Alla disfatta repubblicana, si diede inizio ad una efferata rappresaglia anti liberale: condanne a morte, arresti ingiustificati e persecuzioni, a carico della più nobile orda di intellettuali e patrioti del tempo.
Queste orrende nefandezze, trovarono eguali, in seguito, quando nell’ infausta Unità d’Italia i Savoia fecero sterminio delle masse meridionali…
Con la caduta della Repubblica e la restaurazione borbonica dapprima incarcerati, e nonostante una falsa promessa di espatrio in Francia, ascesero al patibolo in piazza Mercato il 29 ottobre 1799, Ignazio Ciaia, Domenico Cirillo, Mario Pagano e Giorgio Pagliacelli, compagni di vita e di morte.
Questa è la testimonianza di Diomede Marinelli dell’esecuzione del 29 ottobre 1799 (da Giustino Fortunato: I napoletani del 1799): «29 ottobre 1799 – Vi è stata gran giustizia nel mercato su di persone di gran merito, sono stati afforcati con quest’ordine: Pagano, Cirillo, Ciaia e Pigliaceli, tutti e quattro bendati. Don Mario Pagano andava senza calzette con due dita di barba e misero di vestiti, era tutto calvo di testa e patí nel morire. Don Domenico Cirillo gli andava dietro con berrettino bianco in testa e giamberga lunga di color turchino, procedeva con intrepidezza e presenza di spirito. La sera avanti cenarono poco o niente dicendo che dovevano sostenere per poco una breve vita. Si parlò la sera avanti tra di loro come avvenisse la morte negli afforcati, ognuno disse il suo parere e Don Domenico Cirillo decise: per la morte di questi la città tutta ha patito».
Tra i caduti della Repubblica Partenopea anche Francesco Caracciolo, ammiraglio e le nobildonne e patriote napoletane Eleonora Fonseca de Pimentel, e Luisa Sanfelice.