Don Marco Pozza non ha mai avuto paura di alcun “imbarazzo” o “agguato” (parole-chiave dei suoi due ultimi libri). Quando, prete appena consacrato, vedeva pochissimi giovani nella parrocchia della Sacra Famiglia di Padova, li ha inseguiti nelle viuzze della movida in centro. Non sfuggendo neppure alle telecamere di Mtv, ma mai col copione preparato prima, anzi. Neppure quando Papa Francesco ha indetto il Giubileo della misericordia, si è immaginato a tavolino una “narrazione” che coinvolgesse la sua parrocchia di oggi: la cappella del carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova. Ci ha pensato un incontro inaspettato: quello con “don Claudio” Cipolla, il sacerdote mantovano che da poco più di un mese è vescovo di Padova. Cioè anche dei parrocchiani di don Marco: tutti quelli che abitano al Due palazzi, detenuti e non. Di chi è stata l’idea di portare il Giubileo padovano nella Cappella del carcere Due Palazzi: del vescovo – anzi “don Claudio” – o dei detenuti? “Come tutte le cose più belle e genuine, l’idea è nata spontanea a margine di un incontro: quello tra don Claudio e la nostra piccola comunità cristiana che vive dietro le sbarre del carcere di Padova. Appena diventato vescovo della città, ha scelto la “parrocchia” del carcere come prima comunità dalla quale iniziare la sua visita pastorale della Diocesi. Qualche giorno dopo è ritornato e vi è rimasto per un’intera giornata. Calandosi nell’inferno più nascosto del carcere – sovraffollato, disperato, inaridito – ha scoperto ciò che inferno non è, come direbbe Calvino: il volontariato, la compassione, la dedizione. Ha scoperto i loro volti: quelli degli uomini col passaporto di ferro e cemento. Da vescovo che si porta addosso l’odore delle pecore, mentre usciva mi ha confidato d’aver fatto due conti: se dove abbonda il peccato sovrabbonda la grazia, allora vorrei fare della vostra chiesetta una delle quattro chiese-giubilari di Padova. Pensavo fosse una battuta, magari per stemperare la tensione accumulatasi tra le celle: invece aveva tutta la serietà delle manovre divine. Imbarazzante, inaspettata, forse anche immeritata”. “Imbarazzante e immeritata”?… “Proprio così. Il vescovo ha presentato e anticipato il conto ai detenuti stessi: “Da voi, quest’anno, mi aspetto moltissimo, perché quando si parla di misericordia voi capite bene di che cosa si parla”. Un privilegio, dunque: ma anche una grossa responsabilità. Giocare al gatto e al topo con Dio quando si sa di essere il topo è assai pericoloso. E questi uomini lo sanno molto bene”.
In carcere convivono molte religiosità diverse e anche l’abbattimento di chi si sente lontano o addirittura abbandonato da Dio. Qual è la sua esperienza di parroco del Due Palazzi? “La mia parrocchia è un incrocio di sangui, di culture, d’accenti e di religioni. È la prova-provata che l’ecumenismo dell’amore arriva molto prima di quello della religione. Contemplando certe scene da dentro le celle, mi sembra d’assistere alle prove generali dell’Eternità: il lupo e l’agnello, la pantera e la pecora, il bambino e l’aspide, la misericordia e la verità, la giustizia e la pace. Io non sono un prete di strada, non esistono i preti di strada: o si è sulla strada o non si è preti. Dopo quattro anni m’accorgo che il mio dottorato in teologia si è impastato di fango, è inzuppato di strada, odora di miseria: è una teologia che ha addosso il gusto di Dio. La mia umanità è cambiata: gomito a gomito con loro, la perfezione non mi gusta più, è la verità di me stesso che m’interessa. La libertà d’ammettere gli sbagli, le imperfezioni, le inquietudini. È il dono più bello che questi poveracci m’hanno fatto: “Di un prete perfetto non sappiamo che farcene, cerchiamo un prete vero, umano, slabbrato”. Non mi sono mai sentito libero come dentro il ventre di una galera: solo, con me stesso in pugno. Con Dio a tracciarmi la rotta dentro l’inferno”. La misericordia verso chi ha commesso gravi reati appare spesso un muro invalicabile, una periferia troppo remota. Perché chi non è nel carcere è bene si misuri con chi, per qualche ragione, ci è finito? “Per guadagnare tempo prezioso: il carcere è molto più vicino a noi di quello che possiamo immaginare. Frequentarlo è avere l’occasione di amare la libertà, di gustarsi la vita, di assaporare l’umano. È imparare ad alzarsi la mattina e mettere in conto di sbagliare: ci si scopre più liberi d’agire, meno complessati, col guadagno di una maggior verità. Tutte cose che per me erano inimmaginabili fino a pochissimi anni fa”. Gli ultimi due libri che ha scritto hanno due titoli che incuriosiscono e, forse, arrecano scompiglio: L’imbarazzo di Dio e L’agguato di Dio (San Paolo, 2014-2015). Perché quest’immagine di Dio? “Perché a me Dio è apparso così: tendendomi un agguato che mi ha messo l’imbarazzo addosso. La mia storia con Dio è dissacrante e profonda, il mio stile nel parlare di Lui è dissacrante e profondo, anche la mia testimonianza è così: mi piace andarmelo a cercare nell’inferno, nei posti più astrusi, mi piace sfidare la Grazia. Lui fa lo stesso con me: mi tende agguati, mi organizza dei tranelli, s’imbosca per sorprendermi. Sembriamo due bambini che giocano a nascondino: ci divertiamo assai. Io a cercare Lui, Lui a cercare me. Ogni tanto me ne combina qualcuna di grossa e viviamo separati sotto lo stesso tetto per un po’ di tempo. Poi, però, ci manchiamo a vicenda a torniamo a cercarci: ogni volta scopriamo d’esserci innamorati un po’ di più. Siamo una strana coppia io e il mio Rabbì”. L’agguato più insopportabile che le ha teso? “Per chi, come me, fino a qualche anno fa sosteneva “chiudeteli in cella e gettate la chiave nel mare” e dava fiducia a chi predicava tutto ciò, non c’era agguato più atroce di quello di farmi spendere il mio sacerdozio nello sbaraglio delle galere. È stato il suo modo di essere misericordioso nei confronti di una testa calda come la mia: farmi scoprire che un conto è la letteratura del carcere, un conto è l’incontro con i carcerati. Quel giorno ho capito che la grandezza di un uomo non è quella di ostinarsi nelle proprie idee, ma anche di ammettere d’aver sbagliato a ragionare. Ho ammesso d’aver sbagliato traiettoria, ho chiesto scusa a modo mio e sono ripartito proprio da lì. Da dove si era imboscato per convertirmi il cuore, anche il pensiero. Il carcere è la mia porta di Damasco”.