Le note musicali si diffondono nell’aria rarefatta di quell’architettura austera, in quello spazio sovradimensionato che è la Cappella Palatina della Reggia di Caserta. Le note sembrano inseguirsi tra le pieghe del salone, ma soprattutto entrano nelle ferite ancora vive delle colonne e delle pareti, le ferite che una guerra ha provocato e che la mano dei restauratori non ha voluto cancellare, lasciandole lì a monito perenne. La Cappella Palatina non è solo il magnifico prodotto di quel genio innovatore e paradossale che fu Luigi Vanvitelli, ma è anche un tempio dedicato alla pace, un aureo monumento ricostruito per testimoniare la bellezza della creazione umana ma anche la scelleratezza della guerra, il suo vortice di distruzione, le rovine che genera.
Ebbene, la Cappella Palatina è così un luogo magico, un sontuoso, raffinato esempio architettonico, luogo magico per messaggi di pace e di universalità tra i popoli. Un concerto in questo maestoso scrigno assume quindi valenze e significati che vanno ben oltre la qualità dell’esecuzione e la sequenza dei brani. Qui un concerto si carica di un’energia ulteriore, legata non solo alla suggestione dello spazio architettonico ma correlata alla memoria dei marmi, al grido della storia.
Il direttore d’orchestra Filomena Piccolo lo sa. Lo si è visto nel rispetto che ha avuto del luogo, facendo entrare la musica quasi in punta di piedi in modo da diffonderla gradualmente e progressivamente tra le pareti, fino a riempire il sontuoso parallelepipedo di tutte le vibrazioni e le sonorità più avvolgenti. E quel rispetto si è visto anche nella stessa sobrietà del direttore, nel suo abbigliamento composto, nella sua acconciatura, nel gesto sempre misurato. Non si può gareggiare con la Cappella Palatina in splendori e luccichii, non ci si può vestire sfidando lo splendore del luogo. Si uscirebbe sempre perdenti dalla contesa. Allora, è giusto entrarci in punta dei piedi con tutta la sobrietà necessaria, trasmessa a tutti i componenti dell’orchestra da camera Collegium Philarmonicum, a partire dal primo violino, una giovane musicista capace di essere protagonista senza eccedere nei movimenti plastici.
Due donne, quindi, ai vertici di un’orchestra composta poi da tutti uomini, due donne, il direttore e il primo violino, capaci di interpretare la musica in relazione al luogo, di plasmarla, di adattarla allo spazio, alla sua qualità architettonica ma anche alla sua tormentata vicenda storica.
Appropriata anche la scaletta, ricca di suggestioni operistiche ma anche di canti tradizionali, di eleganti partiture recenti e di colonne sonore di celebri film. Tutto con sobrietà, senza mai strafare, senza mai farsi prendere dall’eccesso di entusiasmo. Gli unici a fare un po’ da contrappunto all’orchestra i due cantanti, il soprano Eleonora Arpaise e il tenore Armando Valentino, bravi e inclini a drammatizzare le loro interpretazioni. La loro teatralità è servita a creare una dialettica musicale e a sottolineare ancor più la compostezza delle esecuzioni orchestrali.
Era il Concerto di Capodanno, era l’augurio per il nuovo anno, nella legittima aspirazione che possa essere un anno nuovo, un tempo nuovo, volendo citare le parole del vescovo Giovanni D’Alise al “Te Deum”. Gli auguri musicali, legittimi, desiderati, acquisiti da un pubblico straripante ma composto, sono stati gli auguri per un tempo di pace nel luogo che è il simbolo della bellezza ma è anche la condanna materiale di tutte le guerre, di tutte le violenze.