“In un momento così delicato per la pace internazionale riuscire ad evidenziare quante radici comuni vi siano nelle origini culturali di Asia ed Europa è sicuramente uno degli strumenti migliori per favorire il dialogo interreligioso ed interculturale tra popolazioni diverse”. L’ambasciatore della Turchia in Italia, Aydin Adnan Sezgin, presenta così con un significativo messaggio di pace la Mostra su “Le missioni archeologiche italiane in Turchia a cento anni dalla decifrazione della lingua degli Ittiti”, in esposizione all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli fino al 22 Gennaio. Al piano mostre dell’antica cittadella monastica seicentesca che oggi ospita il campus universitario dell’Università Suor Orsola Benincasa ed è in procinto di essere riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità ci sono in esposizione i migliori risultati (ricostruiti con repertazioni fotografiche, ricostruzioni tridimensionali e documentari video) delle missioni archeologiche in Turchia delle più importanti Università italiane che si occupano di formazione nel settore archeologico: l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, l’Università degli Studi di Bologna, l’Università degli Studi del Salento, l’Università degli Studi di Pavia, e l’Università degli Studi di Firenze.
“L’Italia è il Paese in cui vi sono i migliori archeologi del mondo – evidenzia l’ambasciatore turcoAydin Adnan Sezgin – ed è stato un grande onore per la Turchia ospitarli per studiare e ricostruire le nostre prestigiose origini riconducibili alla civiltà ittita”. Un esempio di cooperazione culturale virtuosa quella tra Italia e Turchia che secondo l’ambasciatore turco “dovrebbe rappresentare un esempio per tutti i popoli del mediterraneo che invece di trovare ragioni di conflitto dovrebbero unire le proprie eccellenze migliori nel campo della ricerca e della formazione per lavorare insieme per la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e culturale della grande area del mediterraneo che da un lato può rappresentare un grande volano di sviluppo economico e dall’altro un grande strumento di integrazione politica e sociale grazie alla scoperta di valori e radici comuni”. Un invito ad usare le grandi competenze italiane nella ricerca e nella formazione come strumento di integrazione culturale subito raccolto da Angela D’Onghia, sottosegretario di Stato al Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, Massimo Riccardo, direttore centrale per la promozione della cultura e della lingua italiana del Ministero degli Affari Esteri, Riccardo Pozzo, direttore del Dipartimento di Scienze Umane del CNR e da Lucio d’Alessandro, Rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e vicepresidente della Crui che hanno tagliato il nastro della mostra proprio insieme all’ambasciatore turco, Aydin Adnan Sezgin.
“Laddove le cancellerie della politica fanno fatica a dialogare – ha sottolineato Lucio d’Alessandro – è proprio la “diplomazia della cultura” lo strumento più efficace per respingere i venti di guerra e costruire la pace con un sistema virtuoso di relazioni e interazioni culturali nel quale tra i popoli non vi siano conflitti ma reciproci arricchimentie da questo punto di vista può essere un grande esempio quello della civiltà ittita a cui dobbiamo il primo trattato di pace della storia dell’umanità (il trattato di Qadesh del 1259 A.C. siglato tra gli ittiti e gli egiziani) non a caso esposto con tutto il suo valore simbolico nel Palazzo dell’ONU a New York”.
Ideata dal Dipartimento Scienza Nuova – Centro Euromediterraneo per i Beni Culturali dell’Università Suor Orsola Benincasa in collaborazione con il Centro Ricerche Archeologiche di Torino per il Medio Oriente e l’Asia, la mostra, curata dall’archeologoMassimiliano Marazzi, professore ordinario di Civiltà Egee e Storia del mediterraneo preclassico al Suor Orsola, è stata organizzata in occasione nell’Anno Europeo dello Sviluppo e in vista del centenario (1906-2016) della decifrazione dell’antica lingua degli ittiti, l’antica popolazione del regno di Hatti, che si formò nel corso del XVII secolo a.C. e dominò sull’intera penisola anatolica (oggi Turchia) e in parte della Siria fino ai primi decenni del XII secolo a.C. La mostra mette insieme ricostruzioni tridimensionali dei principali siti archeologici della Turchia, repertazioni fotografiche dei lavori di scavo e di ricerca, e video documentari delle missioni archeologiche italiane.
È dallo scorso anno che un gruppo di ricercatori dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, con il coordinamento scientifico di Massimiliano Marazzi e la guida tecnologica di Leopoldo Repola, conduce, di concerto con la missione tedesca dell’Istituto Archeologico Germanico di Istanbul, diretta da Andreas Schachner, una campagna di scavo e ricerca ad Hattusa, la capitale del regno Ittita nel cuore dell’altopiano anatolico, in una suggestiva area archeologica, oggi patrimonio dell’UNESCO. Obiettivo della cooperazione, che si svolge d’intesa con il Ministero della Cultura e del Turismo della Turchia, è quello di rilevare l’intero complesso monumentale per mezzo di nuovi strumenti, in parte ancora in fase di sperimentazione, atti alla riproduzione di modelli tridimensionali. Hattusa riscoperta e rivista in 3D, quindi, con l‘obiettivo, come spiega Marazzi, “non soltanto di poter preservare nel tempo evidenze archeologiche che rischiano di scomparire, ma anche di creare in ambienti museali itinerari virtuali in camere immersive per “far passeggiare” il visitatore fra le antiche rovine, accompagnandolo con un tutor virtuale che ne racconti la storia e ne illustri il significato”.
Dietro a questa operazione di “turismo culturale” vi sono però anche e soprattutto obiettivi più propriamente scientifici. I modelli elaborati attraverso l’ausilio contemporaneo di diverse tecnologie di rilevazione tridimensionale, grazie al lavoro del gruppo di ricerca tecnologica guidato da Leopoldo Repola e composto da Alfredo Cerrato, Nicola Scotto di Carlo, Alessandra Ferraro e Stefano Tilia, possono permettere, dopo essere stati “manipolati” adeguatamente in appositi “spazi virtuali”, di mostrare particolari non rilevabili nella realtà all’occhio umano. È il caso, ad esempio, di molte iscrizioni monumentali in quella scrittura che gli specialisti chiamano “geroglifica”, giunte fino a noi spesso in uno stato di estremo deterioramento, tale da impedirne una lettura. Ad esempio l’iscrizione su parete rocciosa di Nishantash (un’altura all’interno del perimetro della città alta di Hattusa), sulla quale l’ultimo re ittita ha voluto immortalare il racconto delle sue imprese belliche. E già le prime sperimentazioni, condotte proprio su questa iscrizione e su quella dello stesso re collocata nella Camera Cultuale 2 della città Alta, stanno aprendo agli studiosi scenari fino ad oggi sconosciuti.
“La vera novità di questa mostra – spiega Massimiliano Marazzi, direttore del Centro Euromediterraneo per i Beni Culturali del Suor Orsola e curatore della mostra – è quella di fare incontrare le nuove tecnologie di rilevazione tridimensionale con delle scritture monumentali, come quelle geroglifiche e multi iconiche, scritture che, tra l’altro, non soltanto sono difficili da leggere e da decifrare, ma sono spesso in uno stato di grande deterioramento, perché trovandosi su monumenti esposti alle intemperie subiscono ancor di più dei reperti archeologici, il passare del tempo. La tecnica 3D oggi ci aiuta, quindi, ad identificare meglio i segni ma anche e soprattutto a poter leggere cose che l’occhio nudo non può leggere, e in qualche modo a fare con i nostri segni geroglifici quasi quel lavoro di identificazione delle impronte da telefilm americano, perché gli archeologi identificano i segni attraverso una corrispondenza ed una comparazione matematica dei modelli di ciò che ancora si può leggere sulle iscrizioni con i modelli teorici dei singoli segni che noi costruiamo in laboratorio”.