Siamo al tutti contro tutti. In Europa, di fatto, c’è una scelta politica di ri-nazionalizzare tutte le decisioni, dimostrando che solo quando c’è sviluppo il vecchio continente riesce a stare assieme, mentre non riesce a condividere strumenti e valori quando si tratta di affrontare le crisi. E, così, il 2015 e l’inizio del 2016 sono stati caratterizzati da un dibattito europeo ipocrita sui flussi migratori. Se n’è parlato con toni spesso accesi e termini come: emergenza, problema, tragedia, disperazione e, perfino, morte. Tra chi dibatteva, poi, c’è chi, spinto da ragioni di strategia politico-elettorale, ha soffiato sul fuoco del populismo per annunciare, a parole, il rimpatrio indiscriminato, il blocco e la chiusura delle frontiere o le espulsioni senza se e senza ma, mentre dall’altro c’è chi, spinto da un incondizionato spirito di accoglienza, vorrebbe utopicamente ospitare tutti i migranti. Di sicuro le chiacchiere fine a se stesse non sono mancate. Ma anche in Italia ciò che ancora manca è una vera e propria strategia per la politica dell’immigrazione sia essa nazionale o, per ovvie ragioni quantitative di dimensioni dei flussi, europea. Poche sono le idee su ciò che dovrebbe essere una strategia comune di medio lungo termine, prevalgono pensieri vaghi e confusi. Il silenzio, a volte, è stato assordante. Un silenzio che non rimbomba solo nei palazzi romani della politica italiana, ma che riecheggia anche nelle sedi dell’Unione europea a Bruxelles.
Se, come si suol dire, la storia si ripete, non occorre ripercorrere tutta l’evoluzione storica dei movimenti demografici per capire come, nei secoli, il continente Europeo sia stato, a fasi alterne, fulcro di movimenti migratori da e per i paesi che formano oggi l’Unione europea. Basti pensare a ciò che è accaduto dalla fine del XIX secolo, quando l’Europa ha iniziato a sperimentare una vera e propria migrazione di massa, in particolare verso le Americhe. Stime di autorevoli demografi confermano che circa 55-60 milioni di europei sono emigrati nel periodo che va dal 1820 al 1940 e di questi 38 milioni circa si sono trasferiti negli Stati Uniti.
Facendo un balzo ancora più indietro nella storia è degno di nota ciò che accadeva nella Repubblica di Venezia che, se pur in presenza di un ordine sociale rigido, ammetteva un certo grado di elasticità garantito proprio dall’immigrazione. Immigrazione che veniva usata come un vero e proprio “fattore di produzione” per rinvigorire l’economia della Repubblica o per ripopolare la città quando questa veniva colpita da cali demografici dovuti, ad esempio, da epidemie. La Repubblica di Venezia aveva, dunque, una ben calibrata e per questo definita politica dell’immigrazione, ciò che manca oggi all’Italia e, clamorosamente, all’Europa.
Nell’agenda europea il tema della sicurezza, a partire dalla difesa dal terrorismo passando per quello della regolazione dei fenomeni migratori, nelle loro complesse articolazioni di ordine sociale ed economico, ma anche in ragione della politica estera e dei rapporti diplomatici con i paesi del sud del mediterraneo, non assumono un ruolo decisivo. Stante la natura intergovernativa delle politiche in materia di immigrazione, la risultante è una sommatoria eterogenea di 28 posizioni difficilmente conciliabili, mentre alle istituzioni dell’Unione europea è lasciato un ruolo di segretariato tecnico o poco più.
Come far fronte, pertanto, ad un immigrazione incontrollata che ha caratterizzato il recente passato ed il presente? Non si può affrontare il tema esclusivamente in termini militari o di ordine pubblico. Occorre integrare con politiche di cooperazione e sviluppo. Occorre passare ad una più consapevole immigrazione da domanda, che significa passare dall’attuale sistema di non controllo dei flussi migratori, con le inevitabili regolarizzazioni ex-post, ad una pianificazione esplicita e condivisa della quantità e della qualità della forza lavoro, in funzione delle scelte di sviluppo che l’Europa nel suo insieme si pone. Solo così l’immigrato potrà integrarsi. L’attuale (non) politica in materia di immigrazione finisce per generare, come è sotto gli occhi di tutti, gravi tensioni sociali e conseguenti rigurgiti di tipo razzista. Per questa via si scaricano, inoltre, su tutta la popolazione i costi in termini dì criminalità, tipici di una politica repressiva.
Pertanto, se questi sono gli effetti dell’immigrazione da offerta subita, è oltremodo urgente cambiare radicalmente approccio. In altre parole, l’Europa, che sta compromettendo le sue fondamenta mettendo in discussione la libera circolazione delle persone (accordi di Schengen), se non vuole condannarsi al declino demografico e, quindi, all’irrilevanza economica, e al caos sociale, ha bisogno di più coraggio e più immigrati, di tutte le categorie e in tutti i settori: dalle badanti agli ingegneri informatici. L’Europa ha, soprattutto, bisogno di passare da un’immigrazione subita a un’immigrazione scelta.
In conclusione,la crisi dell’immigrazione ha degli aspetti apparentemente paradossali che,però, dovrebbero essere letti in funzione positiva perché la crisi può e deve essere una molla per ripartire.L’immigrazione ha un merito indiscutibile di aver messo il dito sulla piaga dell’inconsistenza di un’Europa egoista dove i governi pensano solo ai loro interessi nazionali e che si regge unicamente su vincoli e regole economiche. Un’Europa stanca, svogliata, che non fa più figli, destinata nel corso di poche generazioni all’estinzione demografica, salvo l’integrazione dei figli e dei nipoti dei nostri fratelli africani.
L’integrazione non è una mera acquisizione burocratica di cittadinanza o di diritti; è, piuttosto, l’esito, non del tutto scontato, di un giusto connubio di culture diverse. Noi europei dobbiamo imparare a essere più umili, ad apprendere da altre culture che riteniamo “inferiori” ciò che di buono si trova in queste culture: l’esercizio della solidarietà, il rispetto dei ruoli, il culto della famiglia con le sue tradizioni, il compito dell’educazione dei figli, l’amore per la natura che ci può insegnare un contadino africano che ricava dalla terra il suo sostentamento, mentre noi che non la rispettiamo più creiamo le condizione per l’avvelenamento generalizzato del nostro già sfruttato suolo.
Con questo cambio di approccio l’immigrazione potrà divenire una risorsa solo e soltanto quando i flussi potranno essere regolati, che non significa obbligatoriamente arginati, quando valore e merito verranno riconosciuti. Valore e merito intesi come capacità di sacrificarsi, come gioia del lavoro, come anelito ad un benessere troppo a lungo sognato.
Noi abbiamo bisogno dell’energia dei migranti, della loro voglia di vivere. Loro hanno bisogno della nostra, anche se sgangherata, organizzazione sociale.Questo per il bene di tutti siano essi cittadini europei, italiani o migranti.