Nella primavera dopo le stragi, tra gli odori dei fiori di pesco e una stagione appena nata, il ventre di Scampia partoriva un altro figlio. In quel posto anche il sole passa di corsa perché, in quei palazzoni enormi, poche cose riescono a scaldare il cuore. Nel 1993, la vela blu conosceva un nuovo volto, quello di Emanuele, che da lì a qualche anno sarebbe diventato un piccolo poeta con “il coraggio di essere libero”. Ad otto anni, aveva già trovato il modo per esprimere le sue idee, quelle idee che se sei bravo a diffonderle “continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Falcone aveva detto che “Chiunque è in grado di esprimere qualcosa deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire, non si può chiedere perché.”
Molti bambini alla sua età giocavano a pallone, altri giocavano con le pistole e da grandi avrebbero trasformato la finzione in realtà.
Emanuele invece cresceva tra i suoi versi, in quelle strofe scritte nel silenzio e nell’indifferenza che, intorno a lui, seppelliva i sogni e i rapporti umani. Ogni giorno, la strada che dalla sua scuola lo riportava a casa, gli mostrava il dolore e le difficoltà. Nella routine quotidiana di gente che vende il pane nella carriola, di ragazzi che si ammazzano, di giovani che si amano, di altri che si drogano, quello studente pieno di passione e di curiosità, trovava gli spunti per riempire le pagine di appunti. Nella sua prima raccolta, “Il coraggio di essere libero” , che fu stampata dalla sua scuola media nel 2007, parlava di sé, della sua vita di frontiera, della sua vita difficile fatta di cose semplici. Stavolta Emanuele Cerullo torna a parlare della sua storia e della sua periferia. “Il ventre di Scampia” è uno sguardo penetrante sulla periferia, una confessione dalle vele. Del resto, parlare di Scampia è facile ma parlare da Scampia è un’altra cosa.
Ci sono poesie che rievocano esperienze (“Reminiscenze” e “Fisarmonica”), incontri (“Il pittore”), sofferenze (“Confessione del figlio di Scampia”), denunce (“Bacco arraggiato”, “Caro umano”). Le sue poesie sono una vera e propria fotografia e, forse, neppure se fosse stato bravo a disegnare o a dipingere sarebbe riuscito a descrivere così bene la sua casa, il suo quartiere e le sue radici.
C’è chi ha pensato a scappare, chi è partito senza più tornare indietro e c’è chi invece ha viaggiato dentro di sé prima di poter guardare il resto del mondo. Questo libro è la certezza che, anche nei posti che sembrano essere dimenticati da Dio, c’è sempre qualcosa di buono. Tra le mura sporche come le coscienze, tra i vetri rotti come il sonno, e le pozzanghere di sangue, qualcuno riesce ancora a sognare. I bambini inventano la loro infanzia giù ai porticati del quartiere e le loro voci sono il richiamo alla vita dove tutti ci vedono la morte. Qualcuno gioca con le pistole e c’è chi invece preferisce impugnare una penna. Qualcuno si lascia prendere per mano dalle persone sbagliate, mentre qualcun altro si fa guidare dalle parole fino a diventare un poeta.
Nel corso di un’intervista di qualche anno fa, alla famosa domanda cosa vuoi fare da grande, Emanuele ha risposto:
“Credo che esistano tre etnie: il non lavoratore a tempo stuprato, il lavoratore a tempo indeterminato e l‘artista a tempo inventato. Io scelgo la terza categoria”.