Trovare un Andrea Vaccaro di notevole qualità a migliaia di chilometri da Napoli non deve sorprendere, perché sappiamo che il pittore esportava più di metà della sua copiosa produzione in Spagna, da dove nel corso dei secoli i suoi dipinti si sono sparpagliati per ogni contrada, tenendo conto che sull’impero iberico il sole non tramontava mai.
Abbiamo così avuto la fortuna di poter visionare, anche se solo in foto, una splendida S. Agata (fig. 1) della collezione Gonzales sita in Uruguay, assegnata dalla critica a scuola bolognese, che viceversa presenta tutti gli attributi del malizioso pennello dell’indiscusso specialista del decolté: Andrea Vaccaro, dal famoso “sottoinsù”, il dolce girar degli occhi al cielo, (fig. 2) alle labbra carnose, dall’epidermide alabastrina (fig.3) all’accurata definizione del seno, sodo e prorompente, anche se castamente ricoperto (fig. 4).
Il quadro in esame, come si evince dal retro (fig. 5 – 6), dove è apposto un antico cartellino ed una fantasiosa attribuzione al Guercino, ci permette di ricostruire i passaggi di proprietà del dipinto, grazie alle ricerche di una studiosa, la dottoressa Lucia Tonini, autrice del libro “I Demidoff a Firenze”, la quale ha comunicato al signor Gonzales le sue conclusioni che parzialmente riportiamo:
«Il quadro di cui mi ha mandato la foto è molto interessante e nel gusto collezionistico dei Demidoff, sia padre (Nikolaj Nikitich) che figlio (Anatolij Nikolaevich). Le loro collezioni a Firenze erano dunque due. la prima , quella di Nikolaj esposta nel palazzo Serristori, alla sua morte venne rispedita quasi interamente in Russia e di questa abbiamo elenchi del 1826, 1828, 1830 dove però non risulta il n. 377 (il numero sul cartellino di cui mi manda la foto).
Della seconda collezione, quella di Anatolij, rimane il catalogo dell’asta avvenuta però nel 1880, cioè 10 anni dopo la sua morte. Nel frattempo lui stesso e gli eredi avevano venduto molte opere a altre aste. Non ho ancora guardato il catalogo generale dell’asta del 1880 e lo farò appena possibile.
Vedendo il tipo del cartellino e l’ indicazione della Galleria Demidoff penso che si tratti piuttosto di un quadro appartenente al figlio (Anatolij) e esposto nella galleria della villa di San Donato vicino a Firenze a partire circa dagli anni ’40 dell’800: controllerò il catalogo d’asta. Se però è stato venduto prima da Anatolij stesso non troverò niente. Va considerato che alcune opere del padre entrarono a far parte della collezione del figlio e che nella lista di Nikolaj ci sono dei quadri senza numero».
La S. Agata (fig. 1) fa parte di quella produzione per una clientela laica sia napoletana sia spagnola che il Vaccaro, in una tavolozza monotona con facili accordi di bruni e di rossicci, creava con scene bibliche e mitologiche e le sue celebri mezze figure di donne nelle quali persegue un’ideale femminile di sensualità latente; diviene così il pittore della “quotidianità appagante, tranquilla, a volte accattivante, in grado di soddisfare le esigenze di una classe paga della propria condizione, attenta al decoro, poco incline a lasciarsi coinvolgere in stilemi, filosofici letterari, o mode repentine, misurato nel disegno, consolante nell’illustrazione; Andrea ottenne il suo indice di gradimento in quella fascia della società spagnola più austera e di consolidate opinioni e per converso in quelle napoletane di pari stato ed inclinazione” (De Vito).
Tra i suoi dipinti “laici”, alcuni, di elevata qualità, sembrano animati da un’agitazione barocca che raggiunge talune volte un coro da melodramma.
Le sue sante, martiri o non, in sofferenza o in estasi che siano, sono donne vive, senza odore di sacrestia, a volte perfino provocanti nel turgore delle forme e nell’espressione di attesa non solo di sposalizio mistico, «col bel girare degli occhi al cielo» (De Dominici) e con le splendide mani dalle dita affusolate a ricoprire i ridondanti seni.
Il Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante che fossero, pervase da una vena di sottile erotismo, d’epidermide dorata, dai capelli bruni o biondi, di una carnalità desiderabile sulle cui forme egli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a stuzzicare e lusingare il gusto dei committenti, più sensibili a piacevolezze di soggetto, che a recepire il messaggio devozionale che ne era alla base. Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, di lusinghiere nudità, che gli servirono a fornire mezze figure di sante martiri a dovizia tutte piacevoli da guardare, percepite con un’affettuosa partecipazione terrena, velata da una punta di erotismo, con i loro capelli d’oro luccicanti, con le morbide mani carnose e affusolate nelle dita, con le loro vesti blu scollate, tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma desiderabile. I volti velati da una sottile malinconia e con un caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungono qualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate con amore e compiacimento. Le sue sante, tutte espressioni di una terrena beatitudine.
L’idea del martirio e della penitenza è sottintesa ad un malizioso compiacimento e venata da una appena percettibile punta di erotismo. Queste eterne bellezze mediterranee dal volto sensuale ed accattivante fanno mostra del loro martirio con indifferenza e con lo sguardo trasognato, incuranti degli affanni terreni e con gli occhi che, pur fissando lo spettatore, sembrano proiettati fuori dal tempo e dallo spazio. Dalle tele promana una dolcezza languida, serena, rassicurante, che ci fa comprendere con quanta calma queste sante, avvolte nelle sete rare delle loro vesti acconciatissime, abbiano affrontato il martirio, sicure della bontà delle loro decisioni, placando e spegnendo ogni sentimento e sensazione negativa quali il dolore, la sofferenza, lo sdegno ed esaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta adamantina. La pittura in queste immagini dolcissime e sdolcinate cede il passo alla poesia, che si fa canto soave ed incanta l’osservatore.