A 80 km dalla guerra, a 100 km da Kobane (la città curda prima conquistata e poi liberata dallo Stato Islamico), a 60 km dal confine con la Siria e l’ultima città europea prima di arrivare in Medio Oriente.
Gaziantep, la metropoli turca situata più a sud, è un calderone di religione, tradizioni, modernità e contraddizioni.
La vita a Gaziantep è scandita dalle 5 preghiere musulmane diffuse attraverso gli altoparlanti dislocati ad ogni angolo di strada e in città si mescolano strutture moderne ed antiche moschee nel pieno centro storico, dove i centri commerciali si alternano al gran bazar delle spezie e ci si rende conto di essere esattamente in mezzo tra il Medio Oriente e l’Europa.
Qui una macchina su tre ha la targa siriana e la presenza di questo popolo martoriato dai bombardamenti e dall’avanzata dell’Isis conta quasi 500 mila persone.
Sono migliaia i siriani qui, e rispetto a quelli che abitano nei pressi del confine, dormono in campi profughi o vecchi stabili occupati abusivamente e lo fanno senza far rumore o alzare la voce, mentre i turchi non pronunciano quasi mai l’espressione “rifugiati siriani”. Silenzio assoluto sull’argomento, sanno che ci sono ma nessuno parla delle tante famiglie scampate alle bombe o degli orfani che chiedono l’elemosina per strada. Perchè non sempre arrivare al confine europeo costituisce un vantaggio o una speranza per vivere meglio: c’è chi vive a due chilometri dal centro in case senza l’elettricità, acqua o gas, in modo del tutto abusivo nella periferia di Gaziantep. Essa è un cumulo di macerie tra fabbriche e nuovi quartieri residenziali con centri commerciali e grandi hotel: è ancora tutto in costruzione e niente sembra definitivo qui, nemmeno il tetto sotto cui si rifugiano i tanti profughi.
Se il resto della popolazione turca fa finta di ignorare la questione siriana, c’è una piccola porzione che lavora in una Organizzazione Non Governativa ovvero la GEGD, Gaziantep Eğitim ve Gençlik Dernegi, occupandosi di accogliere, educare ed istruire i bambini di origine siriana ed afghana.
Assomiglia ad una piccola villetta con il giardino e le giostre, invece è un centro in cui si confrontano, studiano e dialogano almeno dieci nazionalità e culture diverse. Ed è così che incontro Irene, una ragazza italiana che dal mese di ottobre scorso svolge il servizio di volontariato europeo presso la struttura di Gaziantep.
Appena sente una voce italiana quasi si emoziona, poiché qui è molto difficile trovare turisti e soprattutto italiani se non sono i volontari del servizio europeo. “Il nostro centro funge anche da scuola, io personalmente insegno arabo ed inglese ai bambini di origine siriana ed afghana.”
Le parole di Irene mi colpiscono subito ed il suo sorriso trasmette perfettamente l’impegno e la passione che ci mette nel suo lavoro. “Io sono italiana e parlo molto poco il turco, i bambini parlano soltanto il siriano e l’afghano e quindi insegnare l’arabo e l’inglese senza avere un linguaggio comune, è stata fin da subito una bella sfida da affrontare. Io gli do gli strumenti per poter imparare ma sono i loro sorrisi e la loro gestualità che condiscono la mia quotidianeità. Hanno fame di cultura, di sapere e soprattutto vorrebbero essere accettati o per lo meno non essere ignorati dal resto della popolazione turca. Se nomini il problema siriano o la parola rifugiato ad un cittadino turco, lui alza le spalle e se ne va, poiché anche se sono molto accoglienti con le tantissime culture che convivono pacificamente, la questione dei campi di accoglienza e dei bambini che patiscono la fame a due metri da qui, non è affar loro. Non tutti i cittadini di Gaziantep la pensano così ovviamente, ma molti non sono neanche a conoscenza di questa situazione”.
E tutto ciò è palesemente visibile in città e soprattutto in periferia e tra le tante persone che ho incontrato in questo viaggio, soltanto Irene riesce a dare una risposta alle mie tante domande e mi racconta come sopravvivono con tanta dignità i siriani qui.
Essi si guadagnano da vivere principalmente dividendo la spazzatura, ovvero separando i diversi materiali nei bidoni, una sorta di raccolta differenziata che poi va venduta. Quelli che restano qui e non si spostano in altre città turche o in altri paesi europei, cercano come possono di mandare i figli a scuola e se proprio non possono chiedono aiuto al centro culturale, questo per non traumatizzare o rendere ancora più difficile la condizione di rifugiato di guerra.
“Le famiglie siriane che ho conosciuto, anche se in condizioni economiche ed abitative veramente precarie non ricorrono alla violenza o alla delinquenza per vivere. In altre parole – continua Irene- essi dicono che possono anche bombardargli la casa, gli ospedali, le città intere ma tutto ciò non fa di loro un popolo negativo e la dignità delle persone non cade a terra come i loro palazzi”.
Ed appena esco dal centro e mi ritrovo in strada, il flusso di parole di Irene mi risuona nelle mente in ogni angolo di città che attraverso e in ogni persona che incontro: in molti offrono mille mestieri ad ogni incrocio e proprio vicino al mio hotel c’è un uomo che pulisce le scarpe ai passanti e mi sono ricordata del suo enorme sorriso meravigliato per ogni moneta ricevuta.
“I turchi sono abituati ad essere accoglienti e tolleranti con le altre culture, poiché sono al centro tra l’Europa e l’Asia, eppure quando mi sono recata al campo dei rifugiati al confine, la tensione tra il personale e i cittadini siriani era evidente: appena arrivata infatti, mi sono accorta che i telefoni di tutti i volontari non potevano più chiamare o ricevere telefonate, erano praticamente tutti bloccati.”
In molti ci lavorano per essere d’aiuto ma non tutti hanno le competenze per lavorare in un ambito così delicato ed Irene mentre parla inizia ad abbassare la voce ed evitare di nominare la parola Siria o Siriani. “E’ difficile la situazione al confine, per tanti motivi che il governo turco non riesce nemmeno ad immaginare e più si va avanti, più la situazione peggiora”. Degli aiuti umanitari che arrivano dall’Italia o dai paesi europei, molti sono rivenduti alla frontiera ed un traffico di medicinali, vestiti o generi alimentari va avanti ormai da anni.
E mentre le mie domande si fanno sempre più incalzanti, arriva la fine delle lezioni e la classe dei bambini più piccoli si appresta ad uscire. Volti sorridenti, quaderni e libri tra le mani e tante ragioni per salutare con affetto la maestra Irene, ed appena li invito a mettersi in posa per una foto vengo praticamente circondata dalle loro voci al suono di “Where are you from? Where are you from?”
E Irene mi sorride fiera del proprio lavoro e dei frutti che sta seminando nella scuola con questi bambini.
E quelle voci in certi giorni, sembrano ancora risuonare negli angoli della mia mente: “Where are you from? Where are you from?”
Non lo so, so solo che oggi mi sento a Gaziantep.
Nicoletta de Vita