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LA CITTA’ DEGLI IMMIGRATI E DELLA TRASGRESSIONE

Napoli ha sempre accolto il diverso ed è stata nei secoli un crogiuolo di popoli e culture. Negli ultimi anni la globalizzazione ha fatto arrivare un numero crescente di migranti, che hanno sostituito gli indigeni in molti lavori, aumentando una disoccupazione già da record ed hanno costituito delle enclave nel cuore della città con interi quartieri che hanno cambiato fisionomia. Partiamo nel nostro viaggio nel degrado da Piazza Mercato, tradizionale mercato del pesce, dove oramai negozi e bar sono di propri età dei pakistani ed i napoletani sembrano una specie in estinzione.
Nella zona tra Piazza Mercato e Corso Lucci si trovano 5 Moschee.
Via Nolana è piena di bancarelle abusive e la zona è territorio dei Rom, specializzati nella vendita dei rifiuti, mentre trionfa la vendita di sigarette di contrabbando: Carnei polacche, Chesterfield con scritte in cirillico ed American legend nigeriane, tutte a tre euro. In origine le fumavano solo gli stranieri, ora anche i napoletani.
Ogni 5-6 banchetti di “Bionde” vi è un internet point per chiamare a casa. Pochi utilizzano Skype
per parlare guardandosi, i più si limitano a telefonare; le tariffe sono diverse; 8 centesimi a minuto per la Romania, 25 per il Marocco, 30 per la Tunisia.
A vendere le sigarette tutte donne, molte con i capelli ossigenati, la ciccia che straborda dai pantaloni abbottonati, all’ultima moda strettissimi. Un linguaggio schietto, potremmo definirlo scurrile, misto a qualche parola russa i marocchina.
Osservandole, più che la “ciucculatina d’a ferrovia” della canzone di Nino D’Angelo, al sottoscritto rammentano una giovane popolana col banchetto alla stazione di Montesanto della Cumana, davanti alla quale d’estate passavo ogni giorno con mia madre e mio fratello Carlo per recare i al mare a Lucrino o a Torregaveta, rimanendo sbalordito della maniera con cui attirava gli acquirenti delle sue sigarette: le faceva scegliere tra le sue straripanti “cape e creature”, mentre intonava a mo’ di cantilena: “e pall mane, e luc strike, e cess e fiete”.
Via Sopramuro è la Napoli che non muore mai, è la gente che si piega al vento della globalizzazione e della recessione. Accoglie e raccoglie. Scampata al Risanamento del 1884 resta sempre il ventre aperto di Napoli, squarciato e con gli intestini esposti alla luce del sole. Qui le mosche del finale di “Kaputt” di Curcio Malaparte hanno vinto la loro guerra contro gli uomini, semmai qualcuno s’è preso il canzo di combatterla questa assurda battaglia. Se nasci qui sai che devi convivere per vivere. Così, la tolleranza è diventata partecipazione agli utili, ma con guadagni indigeni sempre più ridotti. Ogni giorno ha la sua croce e ogni ora i suoi commerci. Ma ce n’è uno che non si ferma mai: quello delle zoccole. Qui trovi in pieno giorno, all’imbocco dei vicoli, le arabe. Anzi sono loro che trovano te. Adescano all’aperto e ti portano nelle loro stanze: bassi, un tempo abitati da nonnine sole che pagavano poco e sono state sloggiate (gli affari sono affari). Al posto del Volto Santo sul comodino ora c’è un pacchetto di preservativi. Chi conosce il mercato sa che le migliori sono le tunisine. Ma sono pure le più care: trenta euro. “Parlano francese e sono raffinate”, spiega un esperto del settore, senza risparmiare un occhiolino. Hanno i magnaccia, certo, ma i protettori si confondono tra le bancarelle, senza perderti d’occhio. “Con le altre nordafricane, te la cavi con meno. E per dieci euro prendi un’africana nera, ma ce ne stanno poche. Quelle lavorano sulla Domiziana”.
Rimanendo nel campo della prostituzione per essere esaustivi possiamo affermare che trovare una napoletana che esercita il più antico mestiere del mondo è più difficile che trovare un ago in un pagliaio. Da alcuni anni sono entrate nel circuito anche le cinesi, forse non belle come le slave o calienti come le cubane, ma più pazienti e certamente più economiche: 5 euro per una botta, 10 per un completo. Dopo averci invaso con i loro prodotti a basso costo il celeste impero, in omaggio alla globalizzazione, domina anche nel campo dei servizi, inondandoci di puttane a basso costo che hanno stravolto il mercato.
Fino ai margini di piazza Mercato e del La vinaio, non c’è solo carne umana in vendita. Per tradizione trionfa il mercato del pesce. Prezzi straciatissimi. Alici a un euro e ostriche a sei, per dire. Poi bisogna capirne la qualità. La gente che compra è di bocca buona. Ma trovi tutto dalle arance siciliane alle cover per telefonini a due euro, in negozi gestiti da bengalesi. Un tempo tra Sopramuro e La vinaio trovavate di meglio. Come a via Giacomo Bavarese dove era pieno di negozi di biancheria. Adesso sono quasi tutti chiusi. Affittasi, vendesi neanche quello: un foglio A4 con scritte arabe e chissà che vogliono dire? C’è un centro per le chiamate intercontinentali. Fuori, la fila: arabi e pakistani, qualche slavo. Quasi nessuno ammette di parlare italiano.
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Dall’altro lato della strada c’è la signora Francesca, popolana che nei tempi della sua eroica gioventù avrà fatto vedere i sorci verdi a troppa gente, pensionata che non le manda a dire. “Lui guadagna seicento euro? Ma lo sapete quando prendo io di pensione? Quattrocentoventi euro e li spendo tutti in insulina”. E dal borsellino nero tira fuori una boccetta. “Me ne accatto solo medicine. Devono passare un guaio tutti quanti”. E la sfilza della maledizione non risparmia mare e monti. Si fa il solito capannello marottiano. Certo non siamo al Pallonetto degli anni Cinquanta, ma in questi vicoli Napoli resta eterna, dannata e redenta, contemporaneamente. Il commercio prova a cambiare discorso. “La vedete quella chiesa?” Indica un’inferriata, schiacciata da un piano fatiscente, con due finestre scassate e il tufo sporco che esce dalla crosta scabbiosa. E’ Santa Maria dell’Arco al La vinaio. “La, ha detto il prete, hanno battezzato Masaniello”. La signora Francesca non sa chi è Masaniello, ma non lo risparmia: “Masaniello? Adda passà nu guaio pur’isso”. Il capopolo non è stato fatto cristiano la’. La chiesa è settecentesca, ma dopo la distruzione nel 1943, di Santa Caterina in Foro Magno, al Mercato, dove davvero il rivoltoso del Seicento fu battezzato, ne ha raccolto il titolo. “Resta sempre la chiesa di Masaniello” s’impunta il negoziante che finge di ignorare il raddoppio della pensionata: “Adda passa’ o stesso nu guaio”.
I guai a via Sopramuro si vendono sfusi e a pacchetti. Un tempo c’è passata la Storia, ora ci passa la Geografia. Ma qualcuno resiste, come l’antica selleria Vitale. Tra questi vicoli insonni, un tempo cavalieri e cavallai venivano a rifornirsi di borse ed accessori. Lavoravano la pelle come pochi. Adesso la memoria è affidata a Danilo Esposito e famiglia. Ti aspetti che nell’antro odoroso di cuoio entri qualche cowboy. Bisogna accontentarsi di due donne, neanche amazzoni, arabe, la mamma con il velo e la ragazza, tendenza oversize, stretta in un jeans borchiato, capelli ossigenati e un italiano fluente. Tratta lei. Ma per il resto, conoscere l’italiano serve a poco. Quasi tutti i negozi sono gestiti da stranieri: quello di sciarpe e cappellini accanto alla pizzeria ha un cartello scritto a mano con i caratteri indiani, il barbiere ha un’insegna araba. C’è, però, una merceria e bigiotteria italiana: si chiama “Renzi”. E’ chiusa per lo spacco. Davanti ci passa la pensionata dell’insulina. La tentazione è forte. Signora Francesca, ma Renzi lo conoscete, vi piace? “Ma chi è? Quello nuovo? Si nun ce aumenta ‘a pensione adda passà nu guaio pur’isso”. E’ il Lavinaio, maledizione.
Se ci portiamo in zona Forcella, da sempre regno del contrabbando i giovani sono alla ricerca disperata di un lavoro, mentre la crisi ha colpito anche la camorra con un calo vertiginoso degli affari illeciti al punto che alcuni ex pusher trovano più conveniente vendere pane a domicilio.
Ce lo racconta Emanuele, 24 anni e uno scooter. Consegna pane a domicilio. E’ la versione moderna del carrettino ambulante. La signora dal vecchio e intufato palazzo di vico Scassacocchi acala (manda giù), il paniere (non è più di paglia, ma di plastica gialla), lui infila pagnotte e panini e prende i soldi. Ha circa 150 clienti privati. “Ma il grosso mi viene da ristoranti e supermercati” spiega. “Sono una ventina”. Racconta: “Mi sveglio la mattina alle sei, vado dai fornitori, prendo il pane, lo metto nei sacchi e comincio i primi giri. Ho aperto una partita Iva e ora guadagno 2500 euro lordi al mese”. Alla faccia del sasiccio. “Ho cominciato quattro anni fa, è un’impresa avviata”. Be’, non siamo precipitati nel “Buddha delle periferie” di Hanif Kureishi, ma, ormai, un’altra Napoli te la senti respirare addosso e non è solo l’alito impastato di vino, a prima mattina, del barbone arabo che ti chiede l’elemosina in un dialetto misterioso. Ora, c’è chi s’è dato una mossa e come ufficio ha soltanto uno scooter e chi sbatte la testa dalla mattina alla sera per portare a casa, onestamente (sostiene) la campata. Nel ventre eternamente gonfio della città, la tragedia è spruzzata di commedia, come un acino di uva passa negli involtini al ragù. E la saggezza antica di
Eduardo che prova a disinnescare i petardi pulp di Quentin Tarantino. Se ti infili in un cortile scopri un’umanità che ha tanta voglia di sfogarsi. “Cercate qualcuno?”. Cerchiamo voi. E loro sono i vecchi e nuovi disoccupati. Da queste parti, la cassa integrazione si chiama mamma e papà. “Quando non ci saranno più i genitori a dare soldi ai figli sposati” spiega calmo Michele, 47 anni, mosca bianca che ha un lavoro da dipendente pubblico (ma è qui che passeggia) “quando sarà, imploderà tutto, imploderà proprio, si ammoscia tutto il sistema o sarà la guerra civile. Diventeremo una favelas brasiliana. Io mi sento un privilegiato perché, una pensione, ringraziando la Madonna, la vedrò”. Per tutto il resto c’è Mamma Card. Prima si puntava su altre madri protettive e oppressive. Mater Camorra. E nei discorsi che si rincorrono in questi edifici sgarrupati serpeggia la nostalgia per il clan potenti. Pure loro starebbero pagando la crisi che lascia sempre meno ossi da rodere. Meno affari, occorre riconvertirsi e ridurre i ranghi. Si salvi chi può, magari faticando, come i mitici abitanti marottiani di vico Zuroli: sulle insegne stradali è scritto vico dei (e non degli) Zuroli, pure la grammatica è indipendente a Forcella. Non ci sono ladri e assassini qui, scriveva il cantore del’”Oro di Napoli”, semmai i pezzenti lavorano. In mancanza di meglio.
In fondo ai gradini decrepiti del vico decine di bambini biondi, ragazzi scuri, uomini chiari e donne brune tutti assiepati in pochi centimetri. In sottofondo, un flauto che suona e mille panni stesi. Le case, o meglio le grotte, sono caotiche e degradate. Ogni ingresso porta il nome (curioso per i rom) di una città diversa. Maria, 18 anni, sposata da tre, occhi chiarissimi e lunghi capelli neri, è adagiata su un letto in una di queste grotte. La si raggiunge solo dopo aver percorso il resto della tana. Appena entrati, il primo odore è quello della candeggina, sparsa per lavare via l’olezzo. Quando ci si addentra, però, l’odore di candeggina si trasforma in puzza di umido e chissà cos’altro, all’altezza dei fili elettrici scoperti e pericolosi nell’atrio-cucinino-salotto. Come si vive qui? “Mio marito ed io ci siamo trasferiti da poco, cambiamo casa ogni tanto, C’è puzza e fa freddo, ma non fa niente. In questo posto abita tanta gente del mio paese e ci riscaldiamo stando insieme”. Tra l’ex-regno dei Giuliano e via dei Tribunali, da decenni sono diminuiti i banchetti delle bionde di contrabbando, ora tirano di più le brune, ma in carne e ossa, arabe e domenicane. I bassi affittati agli stranieri sono da tempo un business collaudato. Antri, scarrafunere come quelli dipinti dai versi di Salvatore Di Giacomo. Non c’è niente da sventrare e da inventare. Buttate fuori le poco redditizie vecchiette dedite a estenuanti rosari, ora i bassi li affittano alle prostitute e ai migranti. Pure qui, come a Porta Nolana, esercitano le straniere. E pure qui le nordafricane sono le più richieste e le meglio pagate. Eppure, di resti medievali se ne cadono questi vicoli dediti ai piaceri del kebab e della pizza fritta al soffritto. A via Nicola dei Caserti ogni muro ne conserva una traccia. Sono reliquie di un passato disprezzato perché ignorato. Come il proverbiale Cippo a Forcella, a piazza Calenda, proprio davanti al Trianon. In tanti a Napoli, per indicare qualcosa di antico o desueto sbottano con un “ma s’arricorda ‘o Cippo a Forcella”. Chi se ne ricorda, però? Perché quel fosso circolare che conserva una scheggia delle mura greche è immondezzaio ciclicamente svuotato e ciclicamente riempito. Spuntoni come denti pieni di tartaro verde, muschio nutrito dal degrado. E tutt’attorno lattine di aranciata, pacchetti vuoti di sigarette, bottiglie di birra, sedie rotte, cartoni per pizze d’asporto, persino un casco da motociclista e un botto (un cipolline) inesploso: sta la da Capodanno. Roba recente, a osservare il resto. Ci resterà a lungo.
La mondezza sfusa e a mucchi è la nostra zella quotidiana, con cassonetti piazzati in modo strategicamente deturpante. Ce ne sono tre o quattro proprio di fronte al Pio monte della Misericordia che conserva le “Sette opere di Misericordia”, il più bel Caravaggio del mondo, e sotto l’obelisco di San Gennaro. Ma più giù, non sono sufficienti i due messi davanti a Santa Maria della Pace: ora è comunale ed è diventata la chiesa degli Uniati, i cattolici ucraini di rito bizantino che ogni girono di festa riempiono la navata come un uovo. Madonne bizantine e san Giuseppe Moscati. Orari delle messe in cirillico e richieste di lavoro da badanti. Nella cupola ammuffita svolazzano piccioni entrati dai finestroni rotti. All’esterno ci sono i due cassonetti Asia, poco usati, perché il grosso lo buttano fuori, a far corona tutt’attorno. Sono televisori rotti, lavandini, materassi.
Ci spostiamo di poco e da Piazza Bellini cumuli di bottiglie e spazzatura quasi colmano le mura greche. Ancora pochi passi e siamo in piazza Cavour dove sventola su un albero un materasso vecchio utilizzato dai barboni, mentre la fontana stracolma di mondezza.
Un tuffo al cuore per me che la ricordo quando bambino frequentavo il Frobeliano, linda e pinta e con alcune paparelle che nuotavano felici.
E finalmente entriamo nella Sanità brulicante di pizzerie con la sua anima aristocratica e plebea, con palazzi scenografici in stato di abbandono totale, ambulanti africani ed una pletora di preti coraggio.
Di giorno non vedi i disperati che hanno abbandonato i loro giacigli notturno ma ne cogli le orme, fatte di tracce puteolenti di urina mista a birra e se sei sensibile puoi percepire il loro dolore per una vita indegna di essere vissuta.
Per tutti può valere la storia di Tamara 75 anni, ucraina: al suo paese era una impiegata, oggi è un’impiagata, una misera barbona con cicatrici sul corpo e nell’anima. Non torna a casa dove ha una figlia ingegnere, vuole soltanto chiudere la sua esistenza al sole tiepido di Napoli.
Si entra nei vicoli turandosi il naso e si potrebbero visitare antiche testimonianze.
A Napoli per ritrovare la Storia, una torre aragonese o una traccia dell’ultima guerra, devi farti spazio tra i garage. E’, comunque, uno schiaffo e una lezione per la cultura antiquaria, derisa da Nietzsche. A Napoli si fa di tutto affinché i morti seppelliscano i vivi, ma alla Sanità non ci riescono. La vita è più forte. Una forza che viene da lontano, perché può risalire, persino, al III secolo avanti Cristo, alla città ellenista, coperta da palazzi alti quattro piani. Sono gli Ipogei dei Togati, gestiti da Carlo Leggieri di Celanapoli che ha una sua lapidaria ricetta: “Il futuro è la memoria”.
Salita dei Cinesi, nel tuorlo della Sanità, profuma di pellicole. Si sente l’odore di Totò, di Sofia Loren, di Eduardo De Filippo, di Vittorio De Sica: di protagonisti del grande schermo che hanno girato qui alcune delle scene più invidiate nel mondo. Però c’è pure odore di mondezza, dato che il famoso palazzo da cui il Principe de Curtis, con un coraggioso gesto di ribellione, lanciava la roba del guappo ne “L’Oro di Napoli” è una discarica famosa come il film. Prima c’era legno. Ora si è aperto un deposito di televisori. Non si vendono, si buttano solo.
Passa di li’ Nedo Novi, giovane film maker della Sanità. Vive in mezzo ai luoghi delle scene tanto sognate. Ma di onirico, questi posti, hanno conservato il ricordo e il colpo d’occhio di un quadro di lontananza. “Il progetto del parco è partito proprio per l’importanza storico-cinema-tografica di questo posto, con la spinta anche di Sofia Loren. Ci sono stati set importanti: “Ieri, Oggi e Domani”, “Sabato, Domenica e Lunedì”, “L’Oro di Napoli”. Tutta la zona è permeata di cinema degli anni d’oro. L’ultimo episodio risale alla fine degli anni ’90. Antonio Captano girò qui danese Nunzio 14 anni a maggio con Bentivoglio”,. Un peccato che ci sia una discarica qui…”Tutta la zona è abbandonata, queste sono pietre semplici. Vorrei creare un percorso turistico-formativo e cinematografico che percorra la storia filmica della Sanità: dai Vergini fino ad arrivare ai gradini Cinesi che sono un punto focale per i lavori di De Sica, Totò, Mastroianni, Loren ed altri”. Tanto per fare una piccola mappa delle pellicole nella Sanità: piazza San Vincenzo, per la scena del “pazzariello” di Toto’. Via Santa Maria Antesecula, set de “L’Oro di Napoli” e di “Ieri, Oggi e Domani”. La casa di Sofia Loren, nel film, sta lì vicino, sulla salita dei Cagnazzi, una terra di confine tra la Napoli collinare di Capodimonte e la Napoli del popolo. Nella stessa pellicola, a Mastroianni, sotto sforzo per le performance sessuali con Sofia Loren (moglie nel film), scappano di mano le arance sui gradini Cinesi. Senza contare il palazzo di Carminiello, che nella scena in questione chiama a raccolta il popolo e canta a squarciagola “Carminiello se ne va”. Speriamo che dall’oro di Napoli se ne vadano pure i rifiuti.
Nel Purgatorio a livello strada ci trovi la solita sfilza di bassi, abitati da rom. M qui funziona una sorta di divisione, una pacifica balcanizzazione degli spazi: i cingalesi da una parte, i pakistani da un’altra. Scie di coriandoli e cardamomo. Più giù i polacchi. Più su i romeni. E se butti un occhio dietro una porta di via Santa Maria Antesecula, la sorella minore della primogenita di Forcella, dietro il cartello “Ricariche Tim” e il cardellino in gabbia, come in una lirica vernacolare, vedi un negozio. “Torno subito” c’è scritto. E’ tutto aperto e nessuno ne approfitta. Più giù c’è un’altra pizzeria, famosissima, “Concettina ai tre santi”.
Inutile chiedere, sono sant’Alfonso, sant’Anna e san Vincenzo, ‘o Munacone. C’è un via vai di abitanti della Sanità. “Ma vengono da tutta Napoli” commenta orgoglioso il giovane gestore, Ciro Oliva, che segue le orme della nonna.
Mestieri scomparsi, mentre riaffiora una civiltà antichissima che otto metri sotto la Sanità ha lasciato, secondo Leggieri, almeno 200 monumenti funebri, in parte saccheggiati già al tempo del Viceregno, quando il rione cresceva e si moltiplicava.
E vogliamo concludere con un messaggio di speranza con le parole del nostro amico Leggieri.
Un altorilievo che raffigura piedi e gambe di una coppia di nobili di età ellenistica. Al loro fianco la sagoma di una pantera, sempre scolpita, che lega il luogo ai culti dionisiaci. Siamo nel seminterrato di un palazzo della Sanità, in via Santa Maria Antesaecula alla Sanità al numero 129. Un palazzo abitato, di 4 piani. Carlo Leggieri, 50 anni, dell’associazione culturale Cela Napoli, ci racconta i tesori storici sepolti, gli ipogei segreti che lui cura e studia da 20 anni. “Potrebbero essercene almeno altri 200 di altorilievi di questo tipo, nei dintorni di piazza Cavour. La necropoli si estende almeno per 1 km. Sono le tombe dei maggiorenti della città di Napoli”.
Chi veniva sepolto qui?
“Qui c’è il cimitero monumentale dell’antica Neapolis. Le tombe di coloro che determinavano la politica della città nei millenni passati.
Risalgono ad un periodo databile tra la fine del IV secolo e l’inizio III secolo a.C. Una necropoli precedente alle catacombe, che invece risalgono a secoli successivi alla nascita di Cristo”.
Poi cosa è successo?
“Le tombe sono state utilizzate per circa 5 secoli. Poi la città è stata interessata da una serie di fenomeni alluvionali che sono penetrati nel sottosuolo per circa 10 metri. Fino a dieci anni fa c’era un calzolaio. Il piano pavimentale copriva l’accesso a questa scala. Il sito è stato riscoperto nelle verifiche sismiche in seguito al terremoto dell’80. Ci si trova di tutto ora. Da una vecchia automobile della Walt Disney alle bottiglie di Coca-Cola. Il nostro prossimo obiettivo è quello di rimuovere i materiali alluvionati, infatti, potrebbero celarsi altre tombe. Ora siamo all’interno della camera funeraria, a 8 metri e mezzo di profondità. Sotto ai nostri piedi, dovremmo trovare sarcofagi lungo le pareti”.
Come mai in pochi conoscono l’ipogeo dei togati?
“E’ una realtà misconosciuta. Ai Vergini-Sanità ci sono 80 presenze monumentali. In qualsiasi altro luogo al mondo questo sarebbe un sito culturale di eccellenza. Siti di questo genere, in tutto il bacino del Mediterraneo, hanno solo due o tre confronti, in ambiente micro-asiatico. E basta. Questo sito non ha niente a che vedere nemmeno con la Napoli sotterranea”.
Quante persone riuscite a portare qui a scoprire questo tesoro?
“Duemila persone all’anno, mediamente. Poche. Specialmente studiosi stranieri e qualche scolaresca”.
Sono state tante le spese negli anni?
“Se avessi la metà di quello che ho speso avrei messo qualche soldino da parte. Orientativamente, direi che ho speso sui 50mila euro, ma non ho assolutamente scopo di lucro”.

 

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