In statistica la devianza indica un valore numerico che misura la distanza di ogni valore osservato dalla media generale dei dati, restituendo, quindi, uno scostamento rispetto alla tendenza centrale Partendo da questa definizione, si potrebbe dire che la devianza identifica un rapporto tra ruoli e aspettative sociali, tra valori, norme condivise e attribuzioni simboliche rispetto ad uno standard desiderabile e riconosciuto dalla comunità di riferimento. Ma non è solo questo. Riprendendo una definizione di Gallino (2014) la devianza sociale è: “atto o comportamento o espressione, anche verbale, dal membro riconosciuto di una collettività, che la maggioranza dei membri della collettività stessa giudicano come uno scostamento o una violazione, più o meno grave, sul piano pratico, ideologico, di determinate norme, aspettative o credenze che essi giudicano legittime, o a cui di fatto aderiscono, ed al quale tendono a reagire con intensità proporzionale al loro senso di offesa”. Dunque, per studiare la devianza si parte dal presupposto che esiste un ruolo di controllo rappresentato da un gruppo di maggioranza, da un comportamento desiderabile, da una norma o un’abitudine condivisa, e un ruolo appunto deviante, che non rispetta, invece, tale configurazione sociale, acquistando, appunto, un valore simbolico negativo, in grado di generare emarginazione ed esclusione. Per molto tempo la tossicodipendenza, l’omosessualità, la criminalità, sono state considerate genericamente come forme di devianza: la sociologia degli anni ‘60 e in parte degli anni ‘70, non riusciva ad oltrepassare la visione deterministica del fenomeno, pensando semplicemente che la devianza fosse un problema legato genericamente al processo di costruzione sociale dello stigma e dei pregiudizi in rapporto alle diversità in generale. Insomma questo approccio finiva per non studiare le forme di devianza se non in relazione al suo concetto stesso, arrivando a pensare che, ad esempio, i malati mentali non esistessero, che l’omossessualità o la disabilità non fossero un problema, che la tossicodipendenza fosse soltanto un problema di mancato controllo sociale (De Leo, 1993). La scuola di Chicago diffuse una visione legata agli effetti: se il concetto di devianza è utile per studiare le configurazioni sociali, l’atto deviante è tutt’altra cosa, va studiata e approfondita in ordine a motivazioni e a problematiche del soggetto che lo compie.
E mentre Durkheim affermava che la devianza fosse il risultato di una deficienza morale, oggi possiamo dire che la devianza va studiata in ordine ai suoi effetti, i quali hanno una storia e una complessità a sé stante. L’atto deviante, ha anche i suoi vantaggi pratici, funzionali agli obiettivi, ai bisogni, e persino alle aspettative della persona o dell’intero gruppo di riferimento (se pensiamo ad esempio alla criminalità, all’accumulo improprio di denaro eccetera). Dunque, è importante comprendere il fenomeno a partire dai suoi processi identitari, comunicativi, simbolici, in relazioni al contesto e ai rapporti interpersonali del gruppo, o della persona in questione. In questo senso, lo studio qualitativo, di tipo etnografico e narrativo, possono essere considerati come validi strumenti per studiare il fenomeno in profondità.
Flora Frate
[*] Cit. D.Matza in “glossario del disagio”, Animazione Sociale, 1993.
Bibliografia
AA.VV., Il glossario del disagio, in Animazione sociale, Gennaio 1993.
Bagnasco A., Barbagli M., Cavalli A., (2012), Corso di Sociologia, Il Mulino
Gallino L. (1978) Dizionario di sociologia, UTET, Torino
Ranci C., (2002), “Fenomenologia della vulnerabilità sociale”, in Rassegna italiana di sociologia, n. 4.
Spanò A. (1999), La povertà nella società del rischio, Franco Angeli, Milano, cap. 1 e 4.