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COMUNICAZIONE VERBALE E NON DELLE PERSONE RISTRETTE NEL CARCERE DI POGGIOREALE.TUTTO IN UNA TESI DI LAUREA.

Quando c’è vita c’è comunicazione, efficace o no, volontaria o involontaria perché anche il decidere di non comunicare è in realtà un atto di comunicazione Non è possibile non avere un comportamento ne consegue che non possiamo non comunicare, ogni giorno infatti si comunica ma non solo attraverso lo scambio di parole, messaggi, informazioni ma anche e soprattutto attraverso la comunicazione non verbale, che consiste in uno scambio di messaggi che devono essere decodificati perché a differenza della comunicazione verbale questa è fatta di sguardi, gesti, silenzi, posture e cambi di timbri. Questo mio interesse verso la comunicazione verbale e non mi ha portato ad intraprendere un percorso complesso ma ricco di emozioni iniziato circa 7 mesi fa all’interno della casa circondariale di Poggioreale. Questo è uno dei ricordi che è vivo in me e lo sarà probabilmente per sempre. È stata la prima volta in cui ho messo piede nell’istituto penitenziario di Poggioreale, ricordo ogni minimo particolare, ogni odore, ogni sensazione è come se tutto fosse impresso a fuoco nella mia mente e sulla mia pelle. Entrare all’interno di un carcere non è mai cosa semplice, non lo è stato per me che l’ho fatto da uomo libero, non oso immaginare come sia per chi invece sa di doverci passare i migliori anni se non addirittura tutta la vita. Utilizzando le parole di Zygmunt Bauman, parlare del carcere vuol dire avvicinarsi a un mondo ai più sconosciuto, volutamente dimenticato. Bauman spiega che non è con l’allontanamento degli esclusi che ci si sente più liberi, perciò è giusto, che dopo aver scontato una pena, il condannato venga riaccolto nella società, seppur dopo un trattamento rieducativo. Risulta semplice additare chi ha commesso un errore e si trova ad espiare una punizione, ma spesso ci si dimentica della sofferenza di queste persone, che hanno sì commesso uno sbaglio, che devono sì pagare, ma che sono già privi del dono più grande che ognuno di noi ha, la libertà, che ogni giorno convivono con un senso di pesantezza per il passato ed angoscia per un futuro che appare incerto e offuscato. Nell’intraprendere questo percorso di ricerca sulla “comunicazione verbale e non verbale delle persone ristrette” ho potuto constatare come entrambi i tipi di comunicazione rivestano un ruolo fondamentale nelle interazioni sociali e di come questi cambino all’interno del contesto penitenziario che ne va a modificare i valori, le priorità e le modalità. Il carcere non modifica solo comportamenti, linguaggio ed atteggiamenti ma va ad incidere profondamente su quelli che sono i valori, la personalità ed il temperamento di quanti lo abitano. Per la ricerca intrapresa ho avuto la possibilità e fortuna di svolgere un primo periodo di osservazione diretta, gli incontri erano circa 2 alla settimana, poiché in quanto volontario e tirocinante dell’Associazione “La Mansarda” ho potuto partecipare alle numerose attività svolte dalla suddetta associazione. L’osservazione avveniva sia durante i corsi proposti dalla “Mansarda” come ad esempio il progetto della “Lettura Libera” o il “Film Therapy” ma anche nelle occasioni ricreative e rieducative che si creavano durante e dopo la presentazione dei libri, in quei momenti i detenuti erano più rilassati e sereni ed ho avuto quindi modo di confrontare le modalità di partecipazione e i comportamenti che mutavano in maniera considerevole nei due diversi contesti. Alla fine del percorso di osservazione è stato presentato ai detenuti un questionario composto da 12 domande suddivise in domande a risposta multipla e domande a risposta aperta per dare la possibilità ai carcerati di comunicare in maniera più libera. Ciò che è emerso dalla mia ricerca è stato il notare come all’interno del carcere sia presente un unione di gruppo vera, viva ed operante. È un legame che tenta di dare risposta all’esperienza negativa della privazione, un vincolo presente ma non rilevabile, che vive quasi nell’ombra per restare lontano da occhi indiscreti e poter sopravvivere. È un sentimento vivo che lega quelle persone, le fa identificare in un “noi detenuti”, ma che separa ed allontana di più dalla così detta società civile, che li ha rifiutati. Quindi non è un caso se la comunicazione che si sviluppa in carcere risulta essere completamente estranea a quella del mondo esterno. Il carcere è qualcosa che ti resta dentro, non importa in quale veste entri perché a prescindere da ciò ti segna. Nel corso della mia esperienza mi sono spesso chiesto il perché si continui tutt’ora a pensare che le persone “al di là delle sbarre” siano diverse da noi, sono uomini, donne, madri, padri, figli, che hanno commesso un errore e stanno pagando. Mi sono reso conto che troppo spesso non vediamo al di là delle nostre certezze, delle nostre convinzioni e, cosa ancora più grave, rinunciamo all’incontro con l’altro perché troppo presi dal nostro io, pronti ad ergerci a giudici sputa sentenze o assurgere a giuria responsabile dell’attribuzione di colpe depositari del giusto e del vero.

MARIANO CAVALLACCIO

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