È uscita da qualche giorno la raccolta di poesie BUM! BUM! Song nat a Furcella e sul na poesia me po’ salvà di Raffaele Sannino (nella foto con il prof. Samuele Ciambriello). La lettura di queste poesie, spiega Paolo Siani, presidente della fondazione Polis, suscitano sgomento, rabbia e frustazione, “l’autore descrive una realtà vera e drammatica, ‘O welfar da Camorra purtroppo esiste e funziona, non essendo soggetto ai tagli del governo o di un sindaco. È un Welfare efficiente, a cui lo Stato, colpevolmente, non sa opporsi” e, aggiunge ancora Siani, “I versi di Raffaele Sannino gridano giustizia al mondo intero, ma sono anche versi di amore e di memoria”. “Questa raccolta” spiega Giovanni Nappi, presidente del consiglio comunale di Casalnuovo di Napoli “fa parte del progetto Una città che scrive che nasce dal sogno di sostituire le armi macchiate di sangue di qualsiasi violenza criminale del mondo, con tante penne, (o tante tastiere) per scrivere e rappresentare ogni emozione, sentimento, sogno, speranza dell’animo di qualsiasi persona, per iniziare, in ogni città, un percorso letterario, attraverso una delle più antiche forme di arte espressiva, la poesia”. “Questo progetto” spiega ancora Nappi, “sostiene Sannino perché è la dimostrazione vivente che la scrittura è occasione di un profondo cambiamento esistenziale e sociale”. Raffaele Sannino nasce a Napoli nel 1975 in un quartiere difficile, Forcella, dove convivono boss e professionisti. Nelle sue poesie Sannino spiega le difficoltà oggettive a tenersi fuori da certi ambienti, esplica i suoi sentimenti verso i genitori e verso chi lo ha cresciuto, e prende anche posizione: attacca lo stato che interviene solo superficialmente, condanna i sacerdoti pedofili, e spiega che sarebbe meglio legalizzare le droghe leggere, tutti, lui compreso, fanno uso di canne, ma per procurarsele sono costretti a dare soldi ai criminali. Insomma versi non banali che vanno sicuramente letti con attenzione. Le poesie sono tradotte in italiano in modo da facilitarne la comprensione anche a chi non è di origine partenopea.
Un appunto però va fatto. I libri devono esportare cultura e scrivendo in un napoletano finto (un napoletano che riproduce i suoni del parlato, come riconosce la curatrice della collana Raffaella Danzica) ciò non viene fatto. “Avremmo potuto correggerle [le poesie], ma ci siamo posti una domanda: nel rispetto di quale senso? Raffaele scrive vicl e andrebbe scritto vicule ma poi sarebbe sembrato Di Giacomo e non un ragazzo di Forcella” spiega ancora la Danzica nell’introduzione. Non è così, se un giornalista si sforza di scrivere in un italiano corretto un articolo come questo non è perché vuole sembrare Dante Alighieri o Alessandro Manzoni, è una semplice forma di rispetto per la lingua che usa e per i lettori che lo leggono. Il napoletano è più che un dialetto, è una lingua e come tale va rispettata, è un patrimonio che deve essere salvaguardato e pubblicando libri scritti in un napoletano finto ciò non viene fatto. Ci rendiamo conto che scrivere in napoletano corretto non è un’operazione semplicissima (tradurre un articolo come questo in napoletano non sarebbe facile nemmeno per un napoletano) ma è un’operazione che va fatta quando si pubblica un’opera letteraria. Auspichiamo quindi che nel prossimo lavoro l’autore sia più attento alla forma e che i curatori della collana lo aiutino in questo.
Il libro sarà presentato dall’autore al carcere di Secondigliano il 20 febbraio alla presenza del direttore del carcere, Liberato Guerriero, del prof. Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione La Mansarda, e di una rappresentanza dei detenuti. Il presidente de La Mansarda ha invitato anche il presidente della fondazione Polis, Paolo Siani, e il presidente del consiglio comunale di Casalnuovo di Napoli, Giovanni Nappi.
Raimondo E. Casaceli