Quale lezione viene a noi italiani dall’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza della Repubblica francese?
La prima lezione è che la tenacia e il coraggio nel perseguire un progetto politico di grandi orizzonti e di grandi ambizioni premiano. Non premia affatto la politica intesa come tattica e attesa, come navigazione tra le correnti e tra i partiti, pratiche nelle quali s’impegnano i piccoli personaggi con i loro collaboratori, seguaci nel migliore dei casi, associati e clienti nel peggiore dei casi. Meno che mai la carriera politica richiede per avere successo il sostegno di familiari, figli e parenti.
Chi ha seguito la campagna elettorale di Macron attraverso un’accurata ricostruzione televisiva è stato poi colpito da due fattori: il primo è l’organizzazione della squadra di collaboratori che l’hanno affiancato dal primo al secondo turno elettorale, un gruppo di uomini e donne competenti nella comunicazione di massa, nella preparazione degli incontri pubblici, nella costruzione dei discorsi del candidato. Niente è sembrato da questi collaboratori lasciato al caso, nulla è stato trascurato nelle mosse degli avversari, nelle occasioni di confronto popolare.
E poi la squadra di Macron trovava nel leader una persona attenta e disponibile, misurato nel comportamento, capace di apprezzare la critica, i suggerimenti, le indicazioni dei suoi collaboratori. Altro che la parodia del “giglio magico” con cui i critici faziosi di Matteo Renzi hanno di volta in volta commentato e amplificato piccoli episodi di dissidi e di protagonismo dei collaboratori di Renzi, che hanno accompagnato le primarie del PD italiano.
Infine rispetto alle ultime vicende politiche italiane mi ha colpito la conclusione dell’impegno di Macron, il suo discorso all’adunata popolare del Louvre quando è stato sicuro d’avere vinto, un discorso severo e austero che non ha lasciato nulla all’enfasi, preoccupato di dover riassorbire la frattura dell’elettorato di destra ricomponendo l’unità della Nazione.
Il giochetto che si è aperto in Italia all’indomani dell’elezione di Macron (“abbiamo un Macron italiano? E chi sarebbe?”) è una prova futile che è bene mettere da parte al più presto. A noi interessa piuttosto seguire le vicende dei rapporti che Macron proverà a stabilire con la Germania e con il blocco dei paesi europei che sono influenzati dai tedeschi. E ci interessa decifrare quale prospettiva si aprirebbe nei prossimi anni tra l’Europa forte e l’Europa debole, tra Germania e Francia da una parte e dall’altra parte i Paesi mediterranei (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia).
La domanda cruciale è: ci sarà un allentamento dell’austerità? Ci sarà l’avvio del completamento della moneta comune? Avremo una politica di bilancio moderatamente e sorvegliatamente espansiva? Ci sarà una disciplina di bilancio transnazionale?
E’ presto per dirlo. Ci sono dati di fatto che muovono l’Europa verso l’innovazione nella politica comune e dati di fatto che vanno in direzione opposta, verso la conservazione. La conservazione, impersonata in Germania dalla figura rigida e ossessivamente fedele al passato che è il ministro delle finanze Schaeuble, nega che sia necessario un cambiamenti di rotta. Ama la politica che è stata attuata negli ultimi quattro anni: spesa pubblica sotto controllo, una bilancia commerciale tedesca sempre più attiva, una moneta comune, l’euro, sottovalutata rispetto all’eventuale ritorno al marco, parametri rigidi imposti ai bilanci pubblici degli altri partner europei. Schaeuble evoca periodicamente lo spettro dell’inflazione essendo smentito dalla deflazione in atto, richiama le paure della classe media tedesca, solletica i mugugni dei pensionati che depositano i risparmi nelle banche locali e lamentano i rendimenti modesti, prossimi allo zero, che percepiscono.
Macron è mosso da altre opzioni di politica economica. Vorrebbe una riforma della moneta comune e una politica di bilancio europea espansiva. Vorrebbe soprattutto avviare progetti d’investimento che specie in Francia favoriscano l’innovazione industriale sospinta dalle tecnologie digitali.
Il contesto internazionale – in particolare la politica isolazionista sbandierata dal presidente degli Stati Uniti Trump – potrebbe favorire l’affermazione in Europa di un modello franco-tedesco di gestione innovativa della politica economica, tale da consolidare l’apparato produttivo europeo e aprire all’industria i mercati in sviluppo dell’Africa e dell’America latina.
La vicenda della politica italiana da qui alle prossime elezioni del 2018 s’inquadra in questa cornice. Diventa per il nostro Paese cruciale un risultato elettorale che ridimensioni i consensi di partiti e movimenti populisti (il Movimento Cinque Stelle e la Lega Nord) e permetta al Partito democratico di guadagnare il primo posto alle elezioni politiche.
Mariano D’Antonio, economista (apparso su Qualcosa di Napoli)