Secondo l’EY Attractiveness Survey 2016 che ha intervistato 410 decision-makers europei, nel 2016 gli investimenti diretti esteri verso l’Italia, i cosiddetti Ide, sono aumentati del 62% rispetto al 2015, collocandoci al secondo posto – il primo è andato alla Svezia, più 76% – nella classifica di 20 Paesi europei; ma la stessa classifica ci vede soltanto in sedicesima posizione per attrattività, con i Paesi nostri competitors – Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna nell’ordine – ai primi quattro posti.
Che la situazione non sia così rosea lo conferma l’ incremento occupazionale: il più 92% rispetto al 2015 vuol dire soltanto 2.654 posti di lavoro creati su un totale di quasi 260.000 in Europa, gratificando l’Italia come fanalino di coda. Inoltre gli 89 nuovi progetti d’investimento nel 2016 lontani dai 103 del 2013 (in Europa sono stati complessivamente 5.845, privilegiando vendite, marketing e manufatturiero).
Operazioni che non bastano a spostare l’asticella dello scarso appeal italiano nei confronti dei grandi investitori internazionali. Con rare eccezioni, dal 1994 al 2015, il flusso degli investimenti diretti esteri si è infatti attestato ogni anno intorno all’1% del Pil: in termini assoluti nel 2016 circa 20 miliardi di dollari, ben lontani dai 46 miliardi della Francia o dai quasi 180 miliardi del Regno Unito.
Nella maggior parte dei casi, i capitali stranieri comprano i nostri gioielli consolidati – nei campi della moda, della tecnologia e industria tecnologica, del lusso, dell’ alimentare, dell’ design, degli immobili di pregio – con fini speculativi, spesso a prezzi di realizzo, ma si guardano bene dall’investire in attivita’ da creare. E, obiettivamente, non si può dare loro torto.
E’ l’intero sistema Paese che funziona male, come dimostra il fatto che da vent’anni il livello della nostra produttività è la metà della media europea. Incapacità di ridurre gli sprechi (fallimento della spending review), corruzione, asfissiante burocrazia, cattivo funzionamento e lentezza della giustizia, sono le zavorre che impediscono di ripartire alle forze sane del Paese. E che generano sfiducia sul futuro dello Stellone, all’estero ma anche da noi.
Achille Colombo Clerici